ANNA FRANK E LA MAGLIETTA DELLA ROMA

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1. Dal diario…… “A noi giovani costa doppia fatica mantenere le nostre opinioni in un tempo in cui ogni idealismo è annientato e distrutto, in cui gli uomini si mostrano dal loro lato peggiore, in cui si dubita della verità, della giustizia e di Dio.” Anna si fermò. Posò la penna vicino al quaderno e chiuse il diario. Di continuare a scrivere non aveva più voglia perché in quel momento si sentiva attratta da una strana onda sonora che proveniva dall’esterno del limbo. Un gigantesco coro di voci simili ad un’orchestra cantava ripetendo quattro sillabe. Proveniva dalla terra dove Anna aveva vissuto la sua breve vita. Lentamente stava avanzando verso di lei. Il suono pur essendo lontano anni luce, arrivava netto, deciso ed era sempre più forte. Era impossibile per Anna concentrarsi sulla scrittura. Presa da una forte curiosità, cerco di capirne di più. Si trattava di un semplice “oooooooooohhhhhhhle” formato da quattro sole sillabe. In un primo momento poteva sembrare un canto melodioso tanto erano carichi di passione i suoi musicanti ma, a mano a mano che si avvicinava, perdeva musicalità e si trasformava in una nenia ossessiva. “Che sia il vento per l’arrivo di una tempesta?” disse Anna.   2. Trotterellando andò verso la porta dove era posizionata la scala d’ingresso per le anime in entrata nel limbo. La scala era formata da un fiume lunghissimo di scalini che facevano degli acrobatici ghirigori nel cielo e le anime che vi camminavano non perdevano mai l’equilibrio. Girò sicura la maniglia ed aprì la porta per vedere da dove proveniva tutto quel suono. Questa volta lo fece senza nessun timore. Ormai non aveva più paura. Erano lontani i tempi in cui tremava solo all’idea di un’irruzione delle SS nel suo nascondiglio. Quando la porta fu aperta, l’onda si infilò nello spiraglio semiaperto e penetrò nella stanza facendo addirittura barcollare Anna tanto era potente il suo suono. Agli occhi di Anna l’onda dapprima apparve formata da un lunghissimo sciame di insetti, poi pensò che forse si trattava di api, considerando il gran rumore che facevano. Ognuna di queste aveva sulla testa un colore o un particolare che a contatto con tutte le altre teste dello sciame, prendeva una forma umana. Formava un volto, un corpo, una fotografia. Quella sua. Quella di Anna. Un gigantesco manifesto con sovraimpresso il suo volto stava avanzando verso di lei. Era una grande onda, lenta e molle, che si era innalzata dall’infinito, simile ad uno tzunami, trasportando come doni solo i peggiori detriti umani. Anna in quella foto appariva sorridente, solare. Come del resto era sempre stata! Ma c’era qualcosa che non andava, qualcosa di stonato ma non riusciva a capire cosa fosse. Allora osservò meglio lo sciame, con attenzione e si rese subito conto che quelle teste non erano di insetti e tantomeno si trattava di api ma erano teste di umani! Per lo più di ragazzi della sua età. Avevano strani disegni sul collo e sulle braccia  e avevano tutti le teste rasate come accadeva in tempo di guerra per il proliferare dei pidocchi.   3. A vederli cosi, con quell’atteggiamento aggressivo, quasi pronti ad un attacco imminente, le ricordarono le SS durante i rastrellamenti. Ma non era più il ’44! Era il 23 ottobre del 2017. Quando Anna poté vedere più da vicino la foto indietreggiò sorpresa: “Ma quella sono io!” Disse quasi urlando. “Ma in quella foto io non porto una maglietta giallo rossa! Indosso un vestito bianco con un collettino inamidato”. Indietreggiò ancora un po’, fino ad arrivare vicino alla sua scrivania. Prese la penna e la impugnò come avrebbe fatto con un coltello affilato. Del resto Anna non conosceva nessuna altra arma se non quella della scrittura. “Perché mi hanno messo quella maglietta addosso? Non capisco! Vi prego spiegatemi! Mi hanno spogliato nuda nel campo e fatto indossare un pigiama a righe! Mi hanno poi fatto morire in un lager di sterminio. Ma non vi basta? Cosa c’entro io con questa gente? Dov’è il mio vestitino bianco?” Mia madre lo cucì con tanta cura. Comprò la stoffa da un mercante di zona che viveva solitario nel suo vecchio negozio polveroso. Mentre mia madre mi prendeva le misure ripeteva sempre la stessa nenia, ad alta voce: “Sei troppo magra! Devi mangiare! Altrimenti non diventerai grande come noi.” Si, mangiavo poco! Ma non perché non avessi fame, ma perché non c’era da mangiare per tutti. Solo facendo così ero sicura che qualcosa restava anche per loro. “Vuoi diventare una bella signorina? Allora devi mangiare” si ripeteva mia madre.

In realtà io volevo solo diventare una brava scrittrice e indugiare quanto più possibile nell’infanzia.
Anna abbassò il braccio. Ora la penna era tornata al suo ruolo di penna. Quello che mia madre stava preparando era l’abito bianco che avrebbe segnato il passaggio dall’infanzia alla mia prima adolescenza. La guardavo mentre tagliava la stoffa e metteva insieme i pezzi. Con le dita affusolate teneva stretto l’ago, proprio come oggi io tengo stretta la penna. Quell’ago aveva un potere magico: faceva apparire e sparire il filo nell’ordito del tessuto e tutte le pezze prendevano forma umana. Come in un racconto.   4. “Lo indosserai per andare a scuola, nelle giornate di sole” mi diceva sorridendo. Io invece lo indossai nei giorni di sole ma anche in quelli di pioggia. Sia d’estate che d’inverno. Come fosse il mio unico vestito! Fatto della mia stessa pelle. Della mia essenza. Lo indossavo anche quella mattina che ci vennero a prendere. Era seduto vicino a me.  Come sempre del resto.  Sulla sedia, piegato con cura. Era il 4 agosto del ’44 quando la Gestapo fece irruzione nell’alloggio segreto. Ero ancora in pigiama nonostante fossero le 10 del mattino. In altri tempi, a quell’ora, ero già a scuola, seduta sul mio banco con indosso il mio grembiule. Le leggi razziali erano state chiare con noi: ai bambini ebrei era proibito frequentare le scuole pubbliche. Nel rifugio imparai a pensare, ad assaporare le note del silenzio ed ogni attimo che passava imparai anche a lasciarmi andare. Quando mi svegliavo la mattina, non avevo voglia di lavarmi, di vestirmi, di pettinarmi. Alcune volte rimanevo in pigiama per l’intero giorno, senza la voglia di parlare con nessuno e di scrivere qualsiasi cosa. Quella mattina, quando fecero irruzione nel nascondiglio, ero in pigiama. Un giovane in divisa si precipitò verso di me e mi disse di vestirmi e al tempo stesso di sbrigarmi.
Potevo prendere solo poche cose. Decisi in fretta cosa portare: il diario, poi tutti i ricordi ed infine anche i sogni. Erano talmente tanti che non entrarono in nessuna delle valige che i miei genitori avevano già preparato nel caso ci avessero scoperto e portato via. Allora li conficcai tutti nella mia testa!
Uno su l’altro e me li portai dietro, prima sul treno e poi nel lager e la cosa che mi dava più soddisfazione era che nessuno se n’era accorto che avevo sogni di libertà e fratellanza fra i popoli. Poi come una brava bambina ubbidii a tutti i loro comandi. Nel momento in cui arrivarono stavo scrivendo sul mio diario qualcosa relativo al nascondiglio segreto.   5. Dal Diario………….l‘alloggio segreto col nostro gruppo di rifugiati mi sembra uno squarcio di cielo azzurro attorniato da nubi nere cariche di pioggia. L’area rotonda e circoscritta su cui stiamo è ancora sicura, ma le nubi si avvicinano sempre di più e sempre più stretto diventa il cerchio che ci separa dal cerchio incombente. Siamo immersi nelle tenebre e nel pericolo e urtiamo gli uni contro gli altri cercando disperatamente una via di salvezza. Guardiamo tutti in basso dove gli uomini combattono, guardiamo in alto dove regnano la quiete e la bellezza e intanto siamo tagliati fuori da quella tetra massa che non ci lascia salire in alto ma sta dinanzi a noi come un muro impenetrabile, che ci vuol schiacciare ma ancora non può. Non posso far altro che gridare e implorare: «O cerchio, o cerchio, allargati, apriti, lasciaci uscire!» Non ero mai pronta per uscire. Passavo in rassegna tutti i vestitini che avevo ma nessuno mi sembrava adatto. Quella mattina quando vennero a prenderci, presi dal bracciolo della sedia il vestitino bianco perché solo con quello sarei uscita e lo infilai in fretta. Riuscii anche a guardarmi allo specchio. Per l’ultima volta. Una sbirciatina veloce. La riga dei capelli era dritta, tutta a sinistra, i capelli invece scendevano sulle spalle formando piccoli tenui boccoli che leggermente si allargavano come se sotto di loro ci fossero dei piccoli moti di vento. Ero in ordine e nonostante tutto, ero carina. Nonostante proprio tutto. Il giovane delle SS che aveva poco più della mia età mi sgridò riportandomi immediatamente a quella triste realtà. Guardai quel mio coetaneo con sorpresa. Era poco più di un bambino e mi chiesi cosa ci capiva lui di geopolitica! Di potere! Di razze!
Non mi spaventò il suo urlo, mi spaventò quella sua convinzione cosi ferrea che quello che stava facendo fosse la cosa giusta.
  6. Scendemmo in strada silenziosi, con i nostri bagagli carichi dei miei sogni e delle paure dei miei genitori. La gente ci osservava. C’era chi era convinto che fosse veramente la cosa giusta e sorrideva alle SS. Chi invece ci guardava con tristezza perché non poteva più fare nulla per noi.  Altri entravano in fretta nelle loro abitazioni o nei negozi su strada come se non volessero vedere ciò che accadeva. Ma anche per paura di essere contagiati da quella follia che aveva generato la più grande guerra di illusioni della storia del mondo con la sua fame e le sue leggi razziali. Avanzai comunque verso il mio destino anche in quell’istante così doloroso, con fermezza e coraggio. Quella mattina in cui lasciai per sempre il nascondiglio indossavo il mio vestito preferito, quello di un bianco candido, come le colombe che volano nel cielo ed era una giornata di sole ad Amsterdam. Tutto risplendeva sotto l’effetto di quella intensa luce. Anche il nostro dolore “Ma ancora questo coro! Basta! Vi ordino di togliere la mia foto da quella maglietta! Non mi appartiene. Restituitemi la mia vita, il mio vestito, il mio diario, i miei sogni! Li rivoglio! Perché anche da morta devo portare un’effige sul petto? Sono stufa di dover sempre dire chi sono. Io sono Anna Frank e questo dovrebbe bastarvi.”
Non ha occhi un ebreo? Non ha mani un ebreo? Organi, consistenza, sensi, affetti, passioni, non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non soffre delle stesse malattie, non è curato con gli stessi rimedi? E se ci pungete non versiamo sangue? Se ci fate il solletico non ridiamo?” Shakespeare
  7. Anna riprese il quaderno, lo aprì all’ultima pagina e quasi graffiando il foglio scrisse: Dal diario…… “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali. Verrà un tempo in cui forse saranno ancora attuabili” Il giorno che arrivai al campo mi chiesero di togliermi tutto, di restare nuda e di farlo in fretta. Evidentemente non si poteva far aspettare l’orrore, la morte. Guardai la sala dove mi trovavo. Era un grande campo. Ci si poteva addirittura giocare a calcio. Infatti alcuni bambini dall’altra parte della sala giocavano a palla con le scarpe di quelli che erano passati poco prima mentre le donne in divisa li guardavano con odio. Il freddo era cosi pungente che ci penetrava come coltelli affilati. Il gioco restituiva la speranza anche in un luogo così terribile come quello di un campo di concentramento! La speranza di continuare ad essere bambini, fino alla fine. Le bambine erano da una parte. I bambini dall’altra. Per alcuni di loro quello di denudarsi era un gioco divertente. I maschietti ridevano guardando le parti intime delle bambine che invece piangevano e chiedevano delle loro mamme.   8. L’aria gelida puntellava sulla pelle. Pallidi, emaciati, secchi e sporchi anche i bambini più belli sembravano orribili maschere. Sui corpi le stimmate innaturali di una guerra sporca, sconfitta e fatta solo di grandi illusioni. Le costole si contavano ad una ad una e sembravano formare l’esterno di una gabbia dove dentro c’era un passerotto spaurito con la forma di cuore che battendo di paura gridava a tutti “aiuto” senza però essere ascoltato. Ubbidii ancora una volta: mi tolsi il vestitino bianco che dopo 5 giorni di viaggio in treno era diventato quasi nero. Avevo viaggiato tutto il tempo in piedi, senza mai potermi muovere. Tenni in braccio il vestito bianco ancora per un momento. Cosi come si tiene una bambina appena nata. Quella bambina ero io. Mi tenevo stretta tra le braccia con ciò che restava di me perché non avevo il coraggio di gettare a terra la mia infanzia e lasciare il posto alla Anna adulta triste e sconfitta nella sua partita con la vita. Quella che mia madre innocentemente desiderava che io fossi. “Mamma, questo vuol dire diventare grandi? Spogliarsi nudi davanti ad una platea di morti? La mia dignità dov’è? La vedi? È calpestata nel fango!” Ma mia madre dov’era per gridarle tutto questo? Me l’avevano strappata dalle braccia appena scesa dal treno! Si era aggrappata per una frazione di secondi ad un lembo del mio vestito ma un soldato la trascino via per sempre. Non l’ho rivista più! “Un minuto, la prego! Solo un minuto!” dissi ad una kapo’. Non mi rispose. Si girò a guardare le altre bambine del mio gruppo. Volevo prendere tempo ma il tempo non c’era. Non ce n’era più per nessuno di noi perche’ quando arrivi ad Auschwitz, il tempo, le stagioni, il sole e la pioggia non hanno più lo stesso significato. Lo tenni ancora per qualche minuto fra le braccia. Volevo coprire le parti intime che denunciavano che non ero più una bambina ma una giovane donna. Ma la kapo’ mi voleva nuda e mi intimò di lasciare i vestiti per terra. Io non ubbidii questa volta.   9. E neppure lo gettai in terra: mi abbassai depositandolo con dolcezza come si fa quando si lascia qualcuno che hai tanto amato all’eternità del tempo.  “Ciao Anna, alla prossima!” sussurrai con un filo di voce. Mi voltai verso il mio destino ed ancora una volta con il coraggio e la pazzia dei miei anni, percorsi anche quella strada che mi conduceva alla morte. Le urla di comando si univano alle grida di dolore. Provenivano da tutte le parti come questo coro assordante che sale dalla terra fino a me. Ma cosa vuol dire? Ooooooooohhhhhhhhhoooooooohhhhhhhle di follia che ci sovrastava tutti, nessuno escluso. I bambini si stavano spogliando. Piegavano ordinatamente i loro piccoli indumenti: le scarpette allineate con dentro le calzette, i pantaloncini piegati in due parti ed il maglioncino fatto ai ferri piegato e anch’esso nascosto all’interno. Il cappottino era riposto sopra. Avevano la speranza che presto si sarebbero svegliati da quel brutto sogno e sarebbero corsi a scuola dato che la campanella era già suonata da tempo. I più piccoli erano i più rumorosi ed indisciplinati. Le kapo’ li misero in fila, tutti nudi, promettendogli che sarebbero andati a scuola dove ad attenderli oltre le maestre c’erano anche le loro mamme. Dovevano solo entrare ordinatamente in quella grande aula e stare tranquilli, avere un po’ di pazienza! Dovevano cantare o fare un oooooooohhhhle di meraviglia, tutti insieme. Proprio come il vostro! Quello che fate nei campi di calcio e che mi avete inviato assieme alla mia fotografia! Li fecero entrare in una quella grande sala mentre l’oooooooooohhhhle di meraviglia si irradiava dappertutto. Non c’erano finestre. Non c’erano banchi e neppure seggioline. Poi la porta si chiuse facendo due, tre scatti. Era una porta di ferro pesante. Pochi istanti dopo, la luce si spense e sentii ancora forte un ooooohhhhhhhhh di meraviglia. Questa volta però si mescolava a piccole grida di paura, forse per l’improvviso buio che saltellavano tra i bambini un po’ qui, un po’ là.
Poi il silenzio. Un silenzio rumorosissimo. Quei 50 bambini impararono la storia in una frazione di pochi secondi.
10. Mi infilai la lurida tunica sul corpo livido e tremante e chiesi ad una delle donne in divisa: “Posso lasciare qui le mie cose?”  Nessuna risposta. Ma che risposta avrebbe potuto darmi del resto? “Si prego, lasci pure qui signorina! Lo prenderà al ritorno” Alcuni bambini tentarono di scappare. Forse avevano capito cosa li attendeva. Anche quelli che giocavano a palla con le scarpe, smisero di giocare. Avevano capito anche loro. Stavano tutti aspettando che quella porta si aprisse e per fortuna la porta non si aprì. Mi chiesi come mai ci risparmiavano l’orrore. Nella sala si era formato un silenzio avvolgente che ci teneva tutti avvinghiati a sé. Ad un certo punto da un lato della sala si sentii un: “Dai scappa! Andiamo, vieni dietro me!” Un paio di bambini molto irrequieti si misero a correre. Le kapo’ di turno gli corsero dietro ma i bambini erano più veloci. Saltavano da una parte all’altra come se fossero di gomma. “Aspettate, con i bambini è meglio se…” gridai ad una delle kapo’ ma non feci in tempo a finire la frase che un botto sordo di un bastone tuonò come un tamburo, fracassando anche le mie ultime parole. Uno dei due bambini cadde in terra colpito sulla nuca. Una pozza di sangue si allargò intorno al suo magro corpicino. Rimase in terra come uno di quegli animaletti che si schiacciano con le scarpe. Nessuno lo raccolse, nessuno lo coprì.   11. Il compagno che ancora correva, quando sentì il lamento del suo amico in fin di vita si girò a guardare nella speranza che fosse ancora dietro di lui. Fu proprio in conseguenza a questo che anche il secondo bambino fu bloccato dalle gigantesche mani di una kapo’ infastidita da tutto quel fracasso. Lo punì con un pugno in pieno viso!  Alla vista di quella scena portai la mano sulla bocca e per pochi secondi non lasciai passare l’aria nei miei polmoni. Volevo morire. A che serviva vivere? Per guardare ogni giorno in faccia l’orrore? Per abituarsi all’orrore e magari riderci in un momento di pura follia? Un urlo disperato si irradiò all’interno di tutto il mio corpo come la corrente elettrica che correva lungo tutto il perimetro del campo   Dal diario Sono abituata a non essere presa sul serio, ma solo la Anne «superficiale» ci è abituata e lo può sopportare, la Anne più «profonda» invece è troppo debole. Per quanto altro tempo dovrò soffrire? La storia mi ha tolto il vestito dell’infanzia, il bianco dei colombi, mi ha dato uno straccio a righe per coprirmi. Io sono Anna! Quella bambina con il vestitino bianco che voleva fare la scrittrice. Non sono quella della foto con la maglietta giallo rossa e lo stemma sul petto.
Ho imparato a memoria i lamenti dell’orrore tanto che il vostro agire neppure mi scalfisce!
A voi revisionisti, a voi neonazisti, a voi qualunquisti, a voi negazionisti, a voi razzisti, a voi skinhead, a voi che avete come solo ideale una squadra, un campionato, io vi dico: “Un pallone ovale non è altro che la vostra testa pensante e mozzata che ruota ed avanza nel campo, trascinata dalle vostre passioni. Che si innalzi quel canto quando il gioco è gioco! Quando il coro è di stupore o di meraviglia! Ma quell’ooooooooohhhhhle è arrivato fino a me per deridermi! Non siete riusciti ad uccidermi una seconda volta. Ancora illusioni ed illusionisti. Io vivo attraverso il respiro del mio diario, vivo dell’amore che ho per la vita anche da morta e della follia dei miei anni anche se sono passati. A voi ragazzi dico che se avete la fortuna di crescere in un mondo senza guerre, senza crudeli effigi da portare sul petto, siate felici di questo perché sottintende una ricchezza infinita: la libertà di agire.
Avete la vita, quella che hanno tolto a me! Avete la dignità quella che hanno tolto a me. Voi non vi dovete mostrare nudi davanti al potere! Avete la forza e la follia per cambiare il corso della storia. Allora cambiatelo il mondo! Che perdete tempo con me che sono morta e sconfitta nel più grande conflitto mondiale, condotto da quattro illusi!
L’orrore è dietro l’angolo di ogni casa. Giocate con il pallone! Anche i bambini del campo ci giocavano. Ma non lo possedevano. Possedevano la speranza, la fantasia. Giocate più che potete e a me non pensate come morta perché morta alla fine non sono: la morte è un fatto troppo transitorio per essere preso sul serio. Io sono l’emblema della speranza nel mondo, sopravvivo ai revisionisti, ai neonazisti perché la mia battaglia non era fatta di illusioni. Era ed è oggi più che mai reale! In un mondo più a misura di bambino dove i campi sono per seminare e per giocare e non per sterminare.   *Illustrazione in top di Gio’17]]>

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