Una barchetta, di quelle fatte di carta da imballaggio, su calanchi grigi, striati dai solchi delle ultime piogge; un’arca arenata sulla terraferma dopo un viaggio lungo la rotta da Genova a Matera, viaggio di mare, viaggio di terra, vento di terra, vento di mare.
Provo ad immaginare la navigazione seguendo la costa del Tirreno, fino a Scilla e Cariddi e poi verso sud est, superata Riace, è lo Ionio, alle spalle le coste rocciose, lungo il litorale è tutta sabbia e, di tanto in tanto, i fiumi che i greci navigarono fino alle nostre colline d’argilla, fino al grigio dei calanchi dove è arenata la barchetta di carta.
Come sempre, una nave che viaggia tra porti lontani si carica di aromi, di sapori, di rumori, così succede anche per “vento di terra, vento di mare” l’ultimo disco dei Renanera insieme con Vittorio De Scalzi, che promette tutto quello che mantiene nel titolo mescolando ritmi, atmosfere, dialetti tra il mare stretto di Genova e l’orizzonte collinare della Lucania.
Le tracce si succedono in un continuo rimando tra terra e mare, come un minuetto in musica tra Vittorio De Scalzi e i Renanera, è un Bolero, un paso doble, tra mare e terra, tra nord e sud, le due anime musicali si intrecciano, si abbracciano, si cercano, in una fusione estremamente gradevole ed interessante.
Li immagino tutti insieme a navigare sulla barchetta di carta, il nocchiero De Scalzi, con la saggezza, l’esperienza del vecchio capitano e Antonio Deodati al timone a inseguire la rotta, e via via le altre sonorità dai tamburi al mandolino, dalla cornamusa alla fisarmonica, a tendere le vele per inseguire i venti di terra e di mare, di vedetta, occhi neri, una maga velata scruta il mare in cerca di presagi per il viaggio.
Ecco, ci risiamo, ogni volta che parlo di loro viaggio lontano inseguendo immagini e storie fantastiche, che posso farci, i Renanera mi piacciono e si vede.
Non incontravo Antonio Deodati e Unaderosa da un pezzo, dall’ultima volta ne sono successe di cose, dai capodanni Rai ai programmi televisivi, nuovi brani, nuove esperienze, li ho seguiti da lontano, di tanto in tanto una telefonata, un messaggio, come si fa tra amici, ma di persona era tanto che non ci vedevamo.
L’occasione è il loro nuovo disco, di cui vi ho raccontato le mie divagazioni, e il desiderio di fare un’intervista per Totem Magazine così, complice il mio oramai indissolubile e inossidabile Pino Paciello, eccoci in redazione per un “4 non so se brucio” in versione scritta.
– Come nasce il progetto Renanera?
-Entrambi veniamo da esperienze musicali articolate – racconta Antonio Deodati – Underosa fondamentalmente nella musica pop e dance, io mi occupavo già di produzione musicale, nel 2012 abbiamo deciso di mettere a frutto le nostre esperienze con un progetto che ci consentisse, di avere dei ritorni anche sul piano produttivo, indirizzandoci verso gli eventi dal vivo, in questa chiave abbiamo un po’ orientato la nostra attività verso la musica popolare.
-Volendo tracciare i due o tre snodi importanti del percorso di Renanera quali raccontereste?
-Il vero e proprio start up del nostro percorso è sicuramente rappresentato dall’occasione che, grazie all’ex Direttore Leporace, il Quotidiano del Sud ci ha dato di distribuire una copia del nostro primo lavoro con il giornale. La seconda tappa importante è rappresentata dalla collaborazione con Eugenio Bennato che dirige artisticamente il nostro album omonimo “Renanera” e lo pubblica con Taranta Power proiettandoci in un mondo più ampio e dandoci un riconoscimento. La terza tappa è l’incontro con Vittorio De Scalzi con il quale ci siamo integrati donando noi a lui un po’ del nostro entusiasmo e lui a noi i racconti della sua lunga carriera, delle esperienze con De Andrè, della musica genovese. Infine direi che una quarta tappa è rappresentata dell’acquisita consapevolezza di Unaderosa come autrice. Alcune canzoni, infatti, sono il frutto di una sedimentazione e stratificazione avvenuta dall’ascolto sì, ma anche, un po’ a mo’ di antropologo, dal vivere i riti popolari e i canti tradizionali di cui facciamo costante ricerca. Ciò vuol dire che lei scrive i brani come se fossero canzoni popolari ma, in realtà, sono originali. Ne sono esempio i brani «‘O Rangio,’o rangio», «Nonna no’», «Croce e corna», «Pulcinella bella» solo per citarne alcuni.
-Ma il nome Renanera da dove viene?
Il nome viene dal colore della sabbia sul litorale vesuviano, il video clip della canzone Renanera l’abbiamo registrata al Granatello, il porto di Portici, assieme a Marcello Coleman, quindi la sabbia nera vulcanica.
-Vi abbiamo visto su Rai Storia raccontare in musica la Basilicata, come è stata questa esperienza?
-E’ una collaborazione nata grazie all’A.P.T. che cercava artisti da proporre al regista del programma Federico Cataldi tra le realtà lucane legate alla musica popolare, abbiamo fornito il materiale proponendoci e dopo due giorni ci è arrivata la telefonata del regista che ha scelto noi per tutte le otto puntate. Una visibilità importante anche se in poco più di un mese abbiamo prodotto 19 brani, un lavoro a tempi serrati, molto complesso, di grande fatica e, naturalmente, di grandissima soddisfazione.
-Quali sono i nuovi orizzonti a cui guardano i Renanera?La nostra musica vuole continuare a raccontare, a ricercare, tra le storie del sud, il nostro prossimo album, un vero e proprio concept sulla Basilicata, racconterà dei moti carbonari di Calvello, della leggenda dei Templari di Forenza, dei riti propiziatori nel tempio di Hera, dei briganti lucani, delle masciare, del miracoloso San Biagio di Maratea, di come Ronca Battista combattè contro i francesi per difendere Melfi dall’assedio, la prefazione all’album la scriverà Raffaele Nigro, da sempre nostro sostenitore.
Poi, naturalmente, ci saranno i concerti dal vivo che sono la linfa vitale dei Renanera.
-Torniamo al vostro ultimo album “Vento di terra, vento di mare”
Abbiamo inserito degli strumenti dell’est europeo, per esempio il Saz armeno che è uno strumento a tre corde triple, praticamente è una specie di mandoloncello da cui il nostro cordista Massimo Catalano riesce ad estrarre delle sonorità completamente differenti dalla musica popolare. Insomma la nostra musica, come gran parte della musica world, cerca la contaminazione, il melting pot mediterraneo, con un’aggiunta di musica elettronica.
Abbiamo chiacchierato oltre un’ora e mezza e Antonio e Unaderosa devono andare, resta il tempo di un caffè e dei saluti, sorrisi, strette di mano e la promessa di rivederci presto.
Mi rigiro tra le mani il CD del loro ultimo disco vento di terra, vento di mare, sulla copertina c’è una barchetta di carta poggiata su dei calanchi, mi arriva una folata di vento freddo, a Potenza il mare non c’è.
Mi immergo nel mio vento di terra, seguo sulla collina il profilo della mia città, sembra una nave, anche essa arenata in mezzo all’Appennino.
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