QUOTIDIANITA’ ITALIANE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
Vigevano, Ore 19:30, “Andrà tutto bene” – Veronica Menchise
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“Andrà tutto Bene” di Veronica Menchise[/caption]
Potenza, ore 24:00 – Giampiero D’Ecclesiis
Niente contatti.
Mi sento in quarantena da una vita. Mi mancano gli abbracci.
Ho bisogno del contatto, degli odori, della sensazione del tatto, sono elementi imprescindibili della mia vita di relazione con le persone a cui voglio veramente bene.
L’assenza di contatto fisico è ciò che maggiormente mi da’ una sensazione di solitudine, più del dormire da solo, più del girare per le stanze della casa di mia madre nel silenzio.
Ho mandato mia madre a casa da mio fratello, lui vive in campagna e alla fine per lei è di gran lunga più sicuro lì che qui con me che comunque vado e vengo e per motivi di lavoro, in ogni caso non potrei rimanere a casa con lei.
Mi consolo con qualche scaglia di cioccolata e qualche sorso del mio cognac. La bottiglia ormai è quasi finita. Domani mattina devo andare a fare scorta, posso resistere (male) all’assenza di abbracci, ma non all’assenza del mio liquore preferito.
Prosit.
Villa d’Agri, ore 19.30 – Cinzia Pasquale
Nel mio studio e’ tutto abbastanza uguale a se stesso, nessuna ansia apparente. Pensieri vari, neppure troppo approfonditi. Solo una frase si agita tumultuosa nelle stanze della mia mente, “nulla accade per caso”. Chissà perché ho sempre pensato che fosse un soffio pronunciato dalle voluttuose labbra color rubino di una cartomante piuttosto che una pensiero elaborato da Jung.
No, non sono una fatalista, non credo nel destino ma sì, sono convinta che nella vita tutto sia questione di sincronicità e coesistenze.
In questi giorni convivo con il tempo. Lo afferro, lo tocco, ha una forma, una densità perché non è quello frenetico delle vacanze di Natale o quello leggero del ferragosto. E’ un tempo che finalmente ha un senso, un compagno vero. E questo mi da una inaspettata tranquillità.
Parma, ore 8.32 – Cristina Cogoi
In questa solitudine forzata ,totale , surreale , carica di silenzio ,di assenza di baci , di abbracci e di carezze, non c’è una cellula del mio corpo che si senta sola , ignorata , non amata.
Sono diventata così attenta a non trascurarle che ogni mattina ,come se dovessi prepararmi ad uscire, medito ,annaffio i fiori , riordino , mi vesto mi trucco con cura ,vmi pettino e poi mi guardo allo specchio .
La mia nuova Me , quella che sta sbocciando come un fiore a primavera , quella che forse sarebbe rimasta assopita ancora un po’ se non fossimo in questa pandemia del 2020 mi guarda assorta , curiosa
Ha occhi grandi , luminosi, affamati di vita
Ha mani lisce , consumate dai disinfettanti , desiderose di carezze
Ha un corpo arrotondato di chi per noia mangia un po’di più , tanto chi se ne frega della prova costume .
Ha pensieri nuovi sogni nuovi desideri nuovi
La mia nuova Me questa mattina mi ha stupita , sino alle lacrime , mi ha guardata e mi ha detto urlando a squarciagola che è fiera di ME e poi sorprendendomi mi ha presa per mano , prima dolcemente poi sempre con più vigore quasi a farmi male , quasi a non volermi lasciare mai più e mi ha detto sussurrandomi ,una frase che non dimenticherò mai più
“ Sono orgogliosa della tua vecchia Te senza di lei Io non potrei esistere , non potrei essere qui , la voglio accanto a me per sempre “
Potenza, Ore 23:59 – Andrea Galgano
Come porsi dinanzi a questa circostanza così dura, così isolante, così impetuosa? Che sembra lasciare deserto nelle strade, renderle vuote, spezzare la possibilità di sfiorarci, di salutarci, se non a volte con una mascherina o coprendosi il volto? Insomma cosa ci strappa dal nulla? Me lo sono chiesto stamattina, camminando per andare a fare la spesa, attendendo il mio turno fuori la porta.
Ma anche a casa, dove ho cercato di immergermi nella lettura (e non solo ma anche serie tv e film), che è il modo non di passare il tempo o di contenerlo, ma di viverlo, non tanto immaginandolo quanto mettendolo a fuoco, far sì che esso non sia un aggancio di ore alle ore.
Allora ho pensato che la condizione migliore, in ogni circostanza, è vivere intensamente il reale, come scrive Luigi Giussani, ne Il senso religioso: «L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto “signore” mi trascina, mi provoca al suo disegno. E dir “sì” a ogni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni. È una posizione vertiginosa».
Questa circostanza è un’occasione per porci dinanzi alla realtà con fiducia, che è il motore mobile che il nostro tempo sembra aver smarrito. Certo non è facile. I numeri la sera sono difficili, lo sforzo immane di medici, infermieri, anestesisti ma anche delle Forze dell’Ordine è tremendo, ma ci resta sempre quella umanità che si pone davanti al Mistero, provocata, non arresa, al vero e compiuto senso del vivere.
Vivere la realtà, anche quando provoca dolore, anche quando spezza la consuetudine, il caffè, il bar, la vita di tutti i giorni che appare monotona, soltanto perché espone la sua nota a noi continua: il desiderio di felicità che deve attraversare la paura.
Aldo Moro scrive:
«Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente al domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà».
Nulla ci impedisce ora e domani di cercare il nostro cammino ultimo, il compimento del nostro destino, la nostra libertà. Anche dinanzi a un nemico invisibile.
Potenza, ore 8:30 – Claudio Elliott
Il vocabolario si adegua al virus, e anche le abitudini.
Per ragioni inesplicabili, da qualche giorno i nuovi nati e le nuove nate non vengono più battezzate con il nome Incoronato o Incoronata, in onore a un nonno o a una nonna. La parte superiore del cranio non è più corona, ma calotta; la regione oculare intorno alla pupilla non è più la corona, ma anello; la parte superiore del dente non è più la sua corona, ma, appunto, la parte superiore del dente; ciò che ha in testa un sovrano non è la corona, ma un copricapo tempestato di diamanti; alcuni villaggi o cittadine, come una in provincia di Bolzano, non si chiamano più Corona: ci penseranno i sindaci a ribattezzarli; in alcune nazioni la moneta ufficiale è la corona: da oggi sarà l’euro, anche se la nazione non appartiene all’Europa. Ci si adegua. E se siete un ministro degli Esteri italiano (e chi non lo è?) non dite virus ma vairus.
Potenza, Pomeriggio, Maddalena Rotundo
Non sono io quella che si è affacciata alla finestra per stendere i panni. E lui non è quello che fuma appoggiato alla ringhiera del balcone del palazzo di fronte. Questi semplici gesti che facciamo da anni, io e lui, seccati per il fatto di esserci scovati, involontariamente, nella nostra quotidianità ( verso le 15.00, quando la lavatrice ha finito il ciclo e l’unico raggio di sole della giornata si infila tra i due palazzi per soffiare un alito sui panni ) appartengono ormai a due persone diverse. Mi è caduta una molletta, ci siamo guardati e con lo sguardo gli ho detto: – Vedi tu che ci doveva capitare ! – E lui ha risposto, con un movimento eloquente del capo : – Se me lo avessero detto, non ci avrei creduto! – E poi, quando ho chiuso la finestra, avrei voluto fare ciao con la mano. Mi sembra, d’un tratto, assai strano che io viva a pochi metri da lui, senza sapere chi sia.
Sera
La paura degli altri aumenta gradatamente ma cresce anche la nostalgia di loro. Eppure viviamo per lo più da soli. Tuttavia, di solito, sapere che la città è abitata è un fatto rassicurante ma scontato, come l’arrivo della primavera. Ora, mentre stabilisco quale sia la corretta distanza fisica tra noi, non posso fare a meno di alzare la quota di vicinanza emotiva, così, per compensare. Sarà presto inutile la capacità che sto affinando di intercettare l’orbita di un altro per evitarlo e potrò presto ritornare ad affidarmi al caso. Non siamo pianeti che vagano soli nello spazio, ma elementi di galassie, tenute insieme dalle leggi dell’ attrazione.
Come l’altro giorno al supermercato, quando già non si poteva considerare l’ altro una presenza inoffensiva e disinteressarsene : svoltando l’angolo che il corridoio dell’ortofrutta fa con quello dei surgelati, io ed una signora che conosco di vista ci siamo incontrate a meno di un metro di distanza. Abbiamo avuto un sussulto e immediatamente abbiamo fatto un balzo all’indietro. Mi sono specchiata in quel viso costernato. Le ho parlato per la prima volta per dirle : – Vedi che ci doveva capitare! – e lei ha risposto: – Se me lo avessero detto, non ci avrei creduto!
Potenza, ore 6,00 – Gianfranco Blasi
Non sento rumori fuori, neppure i mezzi della differenziata. Mi sveglio ricordando Carlo Carretto e Charles de Foucould, devo aver sognato qualcosa…
Padre mio,
io mi abbandono a te,
fa di me ciò che ti piace.
Qualunque cosa tu faccia di me
Ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto.
La tua volontà si compia in me,
in tutte le tue creature.
Non desidero altro, mio Dio…
Questa preghiera è stata un simbolo spirituale per la mia generazione. Mi riferisco a quanti hanno condiviso l’impegno e la militanza nei gruppi cattolici. Il gesto dell’abbandono estremo. La rinuncia ad ogni forma di volontà che non sia quella di Dio. Oggi, davanti a chiese sostanzialmente chiuse, a portoni sprangati, all’assenza di spiritualità da condividere, mi interrogo se può bastare la dimensione sociale e caritatevole, che senz’altro è encomiabile. Non è però il fine ultimo della comunità cristiana. Riavvolgo la pellicola del film della mia vita e torno agli anni giovanili, torno alla comunità di Spello, in Umbria, e alle estati di lavoro e preghiera passate nelle cascine ai piedi del Subasio con Fratel Carlo Carretto.
Vi faccio dono, in punta di sentimenti, di una mia preghiera…
Nessuno parli con nessuno
è l’ultimo appello
disperato
di questo mondo malato
il mio.
Nessuno parli con nessuno
sul filo della voce
dei mancati abbracci
di una sera senza amici
in questo gioco bambino
che chiamavamo “Nascondino”.
Nessuno parli con nessuno
ma io ti ho visto, Padre mio
negli occhi chiusi di un’ infermiera
stanca
tramortita dal dolore
abbandonata
sulla tastiera di un computer
chissà perché, proprio lì
inginocchiata
sull’altare della modernità.
Inginocchiato io
a domandarti
perdono
con un solo desiderio
che conosci bene.
Matera, ore: 20.30 “Tra pazzia e preoccupazione” – Doreen Hagemeister
Ieri giornata soleggiata, e noi quattro in giardino a fare la grigliata, grati di avere questa casa che ce lo permette. Bello! Mia figlia di 15 anni in un attacco di ordinaria follia, pian piano si è dipinto di tempera blu (mi sa che ha preso una buona fetta della mia pazzia!!!)

Oggi sempre bellissimo tempo, e mi sono dedicata anche al giardino. Oltre, ovviamente, al lavoro … è da venerdì che sono in smart working.
Ma poi leggo il messaggio di un mio caro amico, originario pugliese, che ora vive con moglie e due figli a Bergamo. Vi riporto poche righe dei messaggi, che mi hanno veramente toccato: “Qui a Bergamo è un disastro. Oggi sul quotidiano locale c’erano decine di pagine di necrologi. Gli anziani cadono come mosche e ci aspettiamo ulteriori picchi. … Io e mia moglie siamo positivi, ma stiamo bene per ora…” Questo ieri… e stamattina “ieri una collega di mia moglie, … è del 1979, stessi sintomi e no febbre iniziato domenica. Ieri forte tosse e dolore toracico… lastra… polmonite bilaterale interstiziale … scende l’età”. L’ho sentito oggi e mi ha detto che l’hanno mandata a casa a fare una cura con antibiotici generici, non ci sono posti letto. Sinceramente da ieri sera penso a loro, penso a quel che vive tanta gente, ringrazio che vivo qua in Basilicata, dove non ci sono ancora tanti casi registrati. Ma dire che mi ha lasciato indifferente, no!!! Dire che mi illudo che qua non arrivi, no!!! Io sono terribilmente positiva, ottimista inguaribile… mi butto sulle cose da fare e rido delle battute che circolano sui social. E intanto incrocio le dita! La penso come Giuseppe Romaniello (Potenza – 12 Marzo ore 14:35) “Preferisco pensare positivo: la gabbia del limite è il grande concime del pensiero creativo”
Potenza, ore 8:05 – Luca Rando
Esco per buttare la spazzatura e fare la spesa. A giorni alterni ci dividiamo i compiti con mia moglie. La città è vuota, i negozi sono chiusi. Pochi passanti che come me vanno veloci evitando la vicinanza e che, come me, hanno uno scopo chiaro (salute, lavoro, necessità). Qualche macchina, un pullman vuoto.
A me non dispiace la città vuota, il silenzio che costringe a fare attenzione, a pensare (è maggiore il rumore a casa tra video incontri miei o di mia moglie, lezioni, musica e chat dei ragazzi, televisione o radio, non c’è tempo per il silenzio). Mi porta a pensare ad agosto, quando la città si svuota e i negozi sono chiusi e si può camminare senza i fumi delle auto e il rumore delle attività. Ci sono solo le molte macchine parcheggiate a ricordare che non siamo in estate.
Bisognerà ripensarci quando tutto sarà finito, quando torneremo alle nostre attività quotidiane e questo tempo ci sembrerà uno sbiadito ricordo. E forse questo tempo ci è dato proprio per ripensare a noi, al nostro interno (personale e familiare) così da recuperare quella integrità che perdiamo nei giorni uguali del lavoro e della corsa, dimentichi e sonnambuli.
Intanto mi affretto a tornare dopo la spesa: c’è un video-incontro organizzato alle 9:00.
Breda di Piave Treviso ore 19:30, Federica Neso
Ci stiamo sempre di più abituano ormai a star lontani anche da noi stessi..dal 22 febbraio quando tutto è cominciato è stato un crescendo di distanze. Prima di tutto dalla routine, poi dai colleghi, dai compagni di classe,dai vicini, dai parenti e alla fine da noi stessi. Perché è ormai come vedersi da fuori..Guardi quella persona che cura il giardino, lavora in casa, legge libri ma non riesci a capire che quella persona sei tu.
I giorni cominciano a farsi mesi.. É una specie di limbo, duro da spiegare a chi come mio figlio aspettava giugno per chiudere un cerchio. Per il primo periodo ci provi a rielaborare il percorso ma le ultime conferenze di Zaia alle 13 non lasciano presagire nulla di buono e decidi di parcheggiare, metterti in stand by e riempire le giornate di qualsiasi cosa purché arrivi sera.
Arriverà il giorno che con l’alba ci porterà la speranza che il peggio lo abbiamo lasciato alle spalle e ci ritroveremo, riusciremo a riallineare il nostro cuore con la nostra mente e saremo di nuovo in equilibrio con il cielo.
Villa d’Agri (Pz), ore 8:30, Interno 4 – Bagno, Antonella Marinelli
Quarto giorno rosso. E’ il quarto giorno che non esco di casa. Questa mattina al risveglio mi sono recata in bagno ancora con gli occhi chiusi. Il mio incedere conosce le geometrie di questi spazi. Lo scroscio dell’acqua inizia dal vapore caldo. La vasca è pronta ad accogliermi. Erano anni che non provavo la sensazione di essere ben piantata in uno spazio, me ne accorgo solo ora. L’acqua insopportabilmente calda mi infastidisce da principio, finché la temperatura corporea non detta la linea.
La mente affastella pensieri, i più vari, come fogli sparsi sul pavimento, non riesco a fare ordine. Mi chino, ne raccolgo qualcuno. Cerco uno sviluppo, ma è un tonfo nel vuoto. Non è tempo di ricerche interiori. Alzo il saltarello della vasca, l’acqua inizia a defluire, rimango immobile fino al primo fremito di freddo. Mi alzo di scatto. Ho lo specchio davanti, guardo quella donna, resto in silenzio. Esco. Di là dal bagno c’è un nuovo giorno pandemico da affrontare. Sorrido.
Tolve, ore 18:45 – Rocco Mentissi
Mi sveglio, primo pensiero: mi sento bene, respiro sollievo. Secondo pensiero: apro la finestra, il sole entra nella stanza, caldo, dolce, intenso. Questo stop, paradossalmente, mi spinge a un iperattività non prevista, piacevole,motivante. Le idee si affollano, la tv mette la sua dose di ansia nel caffè, lo fa con i numeri, quelli grandi, che crescono. Signora Quantità, che tutto reggi e muovi, sembra che il virus sia una tua conseguenza, una tua contraddizione e a te si ribella; il virus risparmia le terre meno popolose, non attecchisce sui numeri piccoli, sulle piccole cose, sacre.
Ci aggiriamo per casa, sospesi ma sereni. La casa: che bella invenzione. Mi ricordo che alle 18:00 devo suonare sul balcone, con il pianoforte non posso, per ora, allora riprendo, dopo tanti anni, la fisarmonica di mio padre: ha il suo odore.
Genzano di Lucania, ore 17:35 – Gianrocco Guerriero
Fuori c’erano ventuno gradi, stamattina. Dovevo uscire e ho colto l’occasione per prendere il giornale. Mezz’ora in tutto. Le file fuori dai negozi sono la normalità. Chi non indossa la mascherina appare un tipo strano. Per non dare nell’occhio, l’ho messa anch’io. Ci si abitua in fretta a tutto e ci si adegua.
La ‘perla’ della giornata, quella che vale la pena di narrare, è arrivata dopo. È squillato il telefono, nel primo pomeriggio. Ci avvisavano che entro un’ora sarebbero arrivati per una consegna. Un oggetto piuttosto pesante che avevamo ordinato lunedì. Sono giunti puntuali. Due ragazzi. Si riconosce subito, chi sa fare il suo mestiere (o, per lo meno, fa bene ciò che deve fare per necessità): poca esitazione e modi garbati. Avevano la loro mascherina al volto. Del tipo che non serve quasi a niente, come la mia. Indossavano anche i guanti: quelli sì che sono utili. La “distanza” reciproca (in ogni senso) è stata mantenuta sul filo della responsabilità che ci tocca avere. Hanno accettato un caffè, servito in bicchieri di carta e in un clima di leggerezza calviniana.
Non è sempre così, per loro. Alla precedente consegna, poco prima, li avevano bloccati a distanza con tono e modi grevi, chiedendo loro di lasciare a terra il volumoso imballo e andare via. Uno sgravio di fatica benvenuto, certo, ma che non ha ricompensato il “colpo di fioretto” inferto al cuore della dignità. “Ci hanno trattati come fossimo appestati”, mi hanno confidato. Ci abbiamo riso su.
Dobbiamo tenere a distanza i corpi, certo. Non le “umanità”.
Milano, ore 18:00, Lorenzo Casati
Fa caldo qui a Milano, è soleggiato e ci sono circa 20 gradi. Oggi devo uscire di casa per fare la spesa. Metto la mascherina e mi avvio lungo il viale che porta al supermercato. Già a 200 metri di distanza scorgo una macchia scura in lontananza. Continuo a camminare. Per via della mascherina non posso assaporare l’aria come vorrei. La piazzetta dove usualmente giocano i bambini è vuota. C’è una atmosfera felliniana. Superata questa, arrivo in prossimità del supermercato. La macchia che vedevo da lontano erano le persone in fila. All’ingresso un agente di sicurezza fa rispettare una semplice regola aritmetica: appena esce qualcuno, un nuovo cliente può entrare. Così il numero di persone all’interno del supermercato è sempre lo stesso, cioè pari al numero di persone che hanno fatto entrare all’apertura. Sempre sotto l’ipotesi che ci sia sempre qualcuno in fila e che si rispetti l’aritmetica del +1, -1. Mentre sono in attesa di poter entrare mi viene in mente che avevo letto da qualche parte che c’è un modo per sommare le serie oscillanti, +1 -1 +1 -1… ,che nell’analisi classica non convergono. Secondo questo criterio (di Cesaro, se non ricordo male), la somma +1 -1 all’infinito esiste e fa 1/2. Faccio velocemente la spesa: frutta, insalata, pasta, insomma tutto ciò che occorre, e torno a casa. Ecco, ritrovo il video dove spiegano questa curiosità matematica. Dal risultato della somma di Cesaro di +1 e -1 si può ricavare un fatto strano, almeno strano intuitivamente: la somma infinita dei naturali 1+2+3+4+5 e così via, fino all’infinito (e oltre…direbbe Buzz Lightyear) fa -1/12! (Se volete i dettagli della so called dimostrazione andate a vedere il video ASTOUNDING: 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + … = -1/12 del canale YouTube Numberphile). Che divertente, ho pensato: se vivessi infiniti giorni e guadagnassi oggi 1 euro, domani 2, dopodomani 3 e così via alla fine (che poi non esiste, ma per gioco supponiamo che l’infinito abbia una fine), beh alla fine avrei un debito di circa 8 centesimi! È calata la sera, qui a Milano. Cerchiamo di mantenere il morale alto.
Potenza, ore 17.30 – Valerio Nicastro
Oggi è dura.
Bisogna cominciare a pensare a qualche strategia per distogliere il pensiero, bisogna staccarsi dal flusso informativo h24, bisogna provare a rifugiarsi nel proprio bunker personale e mettere in attimo in pausa il bombardamento di pensieri a tema coronavirus.
Quando si paventava l’ipotesi del lockdown, mi ero detto che avrei potuto trasformarla in un’opportunità per fare tutte quelle cose che nella frenesia della mia (devo già dire “vecchia?”) vita quotidiana non riuscivo a fare. Leggere, vedere tutte le serie tv arretrate, sistemare questioni in sospeso.
Invece, non ci riesco. È come se avessi dentro un terremoto continuo, una frenesia che non mi molla. Inquietudine, ecco.
Domani andrà meglio.
Potenza, ore 15:00 – Giuseppe Romaniello
Avere l’idea di scrivere di questo quasi lockdown da completa epidemia, mi restituisce consapevolezza su qual è il reale ritmo delle mie giornate di lavoro; prendo respiro più o meno sempre alla stessa ora, questa (h. 14.50): troppo tardi per mangiare e troppo presto per aspettare il prossimo pasto.
Mangiare è una necessità, mi dico, ben consapevole che a volte è piuttosto una consolazione, altre volte un’esplorazione, quasi mai un lusso (sic!); ma cosa è veramente necessario oggi?
Mi rendo conto di quanto sia cambiata la nostra idea di necessità e di quanto sia destinata a mutare profondamente, in questo tempo di pandemia, la relazione fra noi stessi e le nostre necessità; in questa frenata improvvisa, inaspettata ed ancora inintelligibile, la parola necessità riprendere un sapore nuovo ed antico allo stesso tempo: si esce solo se necessario, si va al lavoro solo se necessario, ci si incontra solo se necessario – e comunque sempre a distanza di un metro! -.
Sarà stato questo tempo dell’abbondanza, superflua e trasbordante, a farci assumere per scontato che chi agisce perché necessitato, confessa, di fatto, il suo essere stato privato, la sua colpevole indigenza, la sua inadeguatezza allo spirito dei tempi; questi tempi, invece, son diventati all’improvviso quei tempi. E, come un cibo mal digerito, si è riproposto sullo stomaco l’imperituro “fare di necessità, virtù”.
Ecco, nel tempo del corona virus, si ritorna a vivere sospesi, limitati e necessitati, come da sempre donne ed uomini hanno vissuto il loro tempo; necessitati si, rassicurati meno.
Potenza, ore 16:00 – Ida Leone
La notizia esce da varie fonti, ma non buca subito il muro della coscienza. Ci vogliono forse 24 ore e un momento di relax prima che realizzi compiutamente questo: gli Stati Uniti hanno bloccato tutti i voli per l’Italia (o forse l’Europa, non é importantissimo).
Questo vuol dire che in caso di qualunque bisogno mia sorella non può tornare, non con la stessa disinvolta facilitá con cui lo ha fatto finora.
Mi sento di colpo più sola e triste.
Mi ripeto tutti i mantra del #restiamoacasa, #andrátuttobene ma vorrei poter piangere, almeno un po’.
Arriva la notte, e sento gli usignoli sotto le mie finestre che gorgheggiano e amoreggiano come ogni primavera. Beati loro che se fottono del virus.
Dai, andrá tutto bene.
Domani é un altro giorno.
Potenza, ore 10:00 – Lucia Serino
«Ma se non ha neppure whatsapp…». Mio figlio mi illumina su una grande sfida di questo tempo di passione. Sta parlando di una delle sue prof. «Noi le stiamo insegnando a usarlo, e così possiamo vederla anche in chat, oltre che su Zoom». Lo straordinario scambio di saperi e conoscenze tra professori e allievi, la costruzione di un rapporto di crescita tra generazioni, sarà una delle cose belle di cui ci ricorderemo di questa guerra che non tollera diserzione di responsabilità. Ma che adegua, meno male, l’innocente astuzia dei ragazzi ai mezzi nuovi. E così al primo accenno di una parvenza di interrogazione, scatta il passaparola sulla disconnessione: «Non c’è linea, prof, non c’è linea». Tornerà il tempo per nascondersi dietro il compagno del banco che sta più avanti. Tornerà.
Potenza, ore 17:00 – Antonio Califano
Chi in questi giorni soffre di claustrofobia dovrebbe leggere “Il romanzo luminoso” di Mario Levrero. Un uomo in un appartamento di Montevideo cerca di scrivere un romanzo, senza uscire quasi mai di casa, una sorta di diario di un anno. 700 pagine dove accade tutto dentro un appartamento: una delle storie compulsivamente ripetute è il racconto di una coppia di piccioni. Meglio la veglia di un piccione al suo compagno morto sul terrazzo difronte, letteratura assoluta. Io sono più fortunato: dalla finestra del mio studio vedo due enormi pini mediterranei che affacciano sulla via Appia, su di essi hanno nidificato da anni alcune coppie di falchi, che variano di numero, prolificano, i piccoli in primavera, per lo più, sotto il controllo dei “genitori”, spiccano i primi incerti voli. Io abito al quarto piano di un palazzo proprio di fronte, dista in linea d’aria non più di 30/40 metri, quasi tutti i giorni almeno una volta al giorno, un grosso falco con una imponente apertura alare spicca il volo dalla cima dell’albero e arriva , planando, a pochi centimetri dalla mia finestra, mi piace pensare che venga a salutarmi….e non ha nemmeno la mascherina.
Pignola, ore 19:30 – Rocco Spagnoletta
Sto tornando dal lavoro dove sono dovuto andare, contraddicendo l’amato hashtag #iorestoacasa, per i problemi di smart working che poi tanto smart da ste parti non è. Parcheggio al mio solito parcheggio a 100 metri dal vicolo e mi incammino. Mi si affianca un’auto, giù il finestrino, due ragazzi che mi fanno: “Ro’ siamo come gli zombie!” “Echiammafa’? Ce la faremo!” “E COM’AMMA FA? NON CE LA FACCIAMO PIU’!”. Risate, quando non si può fare niente diventa tutto un “fare” coniugato in tutti i tempi, in tutti i modi e in tutti i laghi: come facciamo, ce la faremo, che dobbiamo fare, non ce la facciamo più. C’è, tutto sommato, buonumore quando ci si incontra, anche se a distanza.
Dico loro che dovrebbero mettersi in macchina disposti uno sui sedili anteriori e uno su quelli posteriori: “Echiammafa’ u’ taxi?!”.
Poi loro, vedendomi con una busta arancione in mano, mi dicono: “E’ la roba per il lavoro da casa? Lo smart working?”
“ Eh sì!” rispondo.
Invece nella busta ho un litro di Moscow Mule, del ghiaccio e due bicchieri.]]>
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