CRONACA DI UNA PANDEMIA – ITALIA, 19 MARZO 2020

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Vigevano, 20:18 “Ci abbracceremo più forte” – Veronica Menchise

Ci abbracceremo più forte, di Veronica Menchise

Vigevano, 19 marzo 2020 – ore 19:18 – Veronica Menchise

Potenza, 2:45 – Nicola Cavallo

Mi sveglio spesso la notte, ultimamente, per l’angoscia di non esser angosciato o, forse, la gioia di non essere felice. Mi alzo e cerco qualcosa, una frase, pochi versi, un volto

Lo prometto

Ti ucciderò, lo prometto,

se mai avrò il sospetto

che le tue parole non vengano

dal cuore,

che siano il gioco cinico

e ripetitivo di sterili compiacenze,

che abbiano anche la lontana

familiarità con altri sguardi

e odore di altra pelle.

Perché sinora sono state

tocco delicato e perfetto,

soffio fecondo, alito di primavera

nel mio intimo.

Una tale bellezza

se non bacia la verità

è meglio che non nasca affatto

o si lasci morire.

“Lo Prometto”

Antonella Radogna

Io accado

Potenza, ore 11:46 – Antonio Parmentola

Credo che neanche “Doc” di Ritorno al Futuro avesse una macchina del tempo più veloce di quella che sto vivendo in questi giorni a casa mia.

Sono le 11 e sono nel 2030. Non si va più fisicamente a scuola e la professoressa di Matematica interroga sugli integrali in video conferenza.

Sono le 12 e passo al 1950. Si è felici di preparare la pasta in casa (le orecchiette non mi escono ancora bene, torno al 2020 per imparare da un video-tutorial).

Sono le 13 e viaggio fino al 1970. Siamo tutti insieme a tavola.

Sono le 17 e incomincio a perdermi tra la chat su gotomeeting con i cugini, la conference call con gli amici, e l’incontro con tutta la famiglia estesa con google duo e allora mi dedico alla mia attività preferita di questi giorni: emetto la terza ordinanza ed il mio primo DPCM (Decreto di Papà con Mamma).

Primo DPCM: gli abitanti di questa casa sono caldamente invitati a togliere pigiama ed indossare abiti civili appena ci si sveglia (è ammessa tolleranza fino alle 10). Diversamente si ondeggia tra l’atmosfera di un ospedale e quella di un pigiama party.

Terza ordinanza: chi si trova in cucina al di fuori degli orari del pasto dovrà portare con sé autodichiarazione ma in ogni caso è vietato aprire il frigorifero.

Potenza, ore 12.40, Annamaria

Ed è proprio in questo periodo che mi sento in colpa per qualsiasi cosa.

Quando mi sveglio al mattino, spero sempre di leggere buone notizie, ma mi accorgo subito che non ci sono, che i numeri invece di diminuire aumentano in maniera preoccupante.

Ognuno di noi sta vivendo questo momento storico e incredibile a modo suo. Io ho quasi dei riti… degli spazi che ho deciso di ritagliarmi per organizzare la giornata: dai pomeriggi con mio padre che oramai erano diventati rari, dalle chiacchierate con mia mamma che oramai erano diventate inesistenti, dalla lettura di un bel libro allo scrivere qualsiasi cosa, per svuotare la mente. E poi, quando me la sento, apro la porta ed esco in giardino.

Un gesto così scontato, banale, fino a qualche tempo fa. E quando sono fuori, come oggi, e sento il sole che scalda il viso, mi sento in colpa. Mi sento in colpa per chi in quel momento si trova in un letto d’ospedale a combattere per il dono più prezioso che abbiamo: la Vita, per i medici che lottano ogni giorno, per i parenti che soffrono.

Non so quando finirà tutto questo, ma so che saremo diversi, che sarò diversa. Lo sono già adesso.

Lo siamo già adesso.

Parma, 8:10 – Cristina Cogoi

Mi sveglio e chiamo

“ auguri papà grazie di esserci, grazie per tutto ciò che hai fatto per me e che continui a fare, sono una figlia fortunata.

dall’altra parte un silenzio che sembra duri un eternità e poi arriva la risposta, sussurrata, inattesa, squarcia l’anima.

“ Cristina, Donne come Te annegano oceani non dimenticartelo mai “

Chiudo la telefonata e piango.

Breda di Piave Treviso, 12:30 – Federica Nesi

Mio figlio sta ” studiando” in giardino.. Tornerà a scuola non di certo preparato ma di sicuro abbronzato!!! Ogni tanto fa capolina in cucina con quel sorriso che illumina anche la notte più buie a vedere che faccio. Le sue risate. Di questi giorni mi porterò questo ricordo.

Ha sempre avuto questa capacità innata a far sorridere chi gli sta attorno… A regalare sorrisi solo a chi ne ha proprio bisogno come se avesse un radar per captare i pensieri tristi delle persone.

E niente… Cerchiamo, perché è contagioso più del virus, di riempire casa e giardino di risate… Nella speranza che l’eco si diffonda e faccia sorridere il nonno che sta chiuso in casa e soffre nel non poterlo avere vicino.. Allora alla sera lo chiama per telefono… Che arrivi anche al di là della strada dove abita la signora sola che si fa compagnia con il cagnolino e guarda le macchine passare. Che l’eco di queste risate arrivi fino alla fine di questo periodo,dove potremo abbracciarci e sorridere.

Genzano di Lucania, 15:35 — Gianrocco Guerriero

Rispetto a ieri, la mia giornata (non ancora finita) non è stata che una variazione sul tema.

Abbiamo (quasi) tutti molto tempo, ultimamente. Ecco… l’ho fatto: ho nominato la parola “tempo”, dando per scontato che tutti voi, leggendo, capirete cosa significhi. Se potesse intervenire il mio amico Wittgenstein (amico per assidua frequentazione libresca) direbbe che ciò che io e voi abbiamo compreso di quanto ho appena scritto è semplicemente il “gioco linguistico” al quale partecipa la parola “tempo”, perché se ci chiedessero “cos’è il tempo”, ci troveremmo, né più né meno, nella situazione in cui versò Agostino d’Ippona tanto tempo fa.

Beh, ci sono due miei cari amici (ma cari davvero, e pure molto “tosti”) che ultimamente vanno dicendo in giro (fin quando si poteva uscire, finanche nelle piazze) che il tempo non esiste, che è solo un illusione. Lo dice anche Rovelli, a voler essere precisi: il tempo, nel paradigma della teoria della “gravità quantistica a loop”, in effetti non esiste. Non esiste come parametro fondamentale e non ha più una “t” da prendere per casa, ma emerge travestito nelle “relazioni”, sempre più fondamentali delle “cose” (ce ne stiamo accorgendo appunto adesso, quanto tali siano anche a scala umana).

A dire il vero, pure Einstein, quello che fa linguacce sulle T-shirt, credeva poco alla realtà del tempo, anzi per niente: se prendi “-t” e lo sostituisci a “t”, nelle equazioni non cambia un fico secco: sono indifferenti, loro alla direzione sulla quale corre il tempo. Ma “quel” tempo lo sappiamo dire bene, che cos’è (Bergson s’è divorato gli anni, su a pensarci): è spazio: è una retta sulla quale distendiamo un parametro necessario a capire il mutamento.

La fantasia è andata oltre (e ha pure segnato molti goal), aggiungendo a “t” e a “-t” un magico “it”, dove “i” è una “cosa” strana che ruota gli assi di novanta gradi (non ho “tempo” per spiegarlo bene adesso) e che moltiplicata per se stessa dà per risultato “-1”: indispensabile, il nuovo tempo-retta, per lo spazio pseudoeuclideo di Minkowski, poi piegato e reso pseudoriemanniano per avere covarianza (parole “toste”, lo so!).

E poi c’è l’entropia, che ci dice perché c’è tanta asimmetria fra il “prima” e il “dopo”, in questo splendido universo, perché un virus ci distrugge e perché domani i miei due amici (Tonino e Nicola) avranno voglia di linciarmi (per fortuna non si esce e ne approfitto: uno fa arti marziali e l’altro è alto quasi due metri, ops! eh eh!).

E quindi, oso: tempo esiste, cari miei. Non è la “t” della meccanica descritta da Laplace, certo (e già lì, col caos deterministico, intravisto già da Poincaré, c’è un problema grosso), ma neanche l’ “it” dello spazio-tempo a quattro dimensioni.

Non mi spingo oltre, ma… il tempo, ve lo assicuro, esiste. Non solo: il tempo è tutto ciò che c’è.

Adesso invio il pezzo e poi scelgo che fare del mio tempo da qui a stasera. Le biforcazioni sono tante.

Dimenticavo: domani la Terra passerà dal punto dell’Ariete (il punto Gamma). Detto in altro modo, comincia la stagione chiamata primavera. È così che misuriamo il nostro tempo, noi: solstizi ed equinozi in successione. Con tante variazioni, certo, ma sul tema.

Potenza, ore 8:36 Francesco Cosenza

” Visa para un sueño “

C’è un silenzio che parla con la luce. Lo tocco e questo mi guarda.

Nello sguardo riconosco una punta di matita, sottile e scura per meglio tratteggiare gli angoli e cancellare con una riga, la vita precedente che il silenzio di prima mi obbliga a guardare. La costruzione di un nuovo centro, nato nelle ore che copiano le ore e sono parole. Sfoglio le pagine elettroniche dell’epoca nuova, unica connessione con i volti e con i corpi. I corpi sono dunque le parole. In questi fogli di luce i mondi girano, ho ritrovato una canzone di Juan Luis Guerra e la ricordo.

Lanciata spensierata come una Vespa in una Roma deserta. Parla di sogno e nel farlo apre un altro mondo e io, nel pensare a tutto questo mi ritrovo con lo sguardo poggiato sul palazzo di fronte, sulla sua parete bianca tra una finestra semichiusa, che lascia intravedere un interno, simile a quelli visti in quel film di Scola ed una signora sul balcone come un punto rosso di contrasto. Proprio lì vedo scritta una frase. Scritta con la punta della matita di prima e scura come le cose che fermano le cose trasformandole dopo.  Quando mi chiedo dove sono arrivato dove sono, la risposta mi sorprende: ascoltando ” Philip Roth “.  E la ” matita ” nella stanza diventa una schermo, scrive il tempo nelle pieghe dove camminiamo, senza corpi da toccare, con parole da ascoltare e da scrivere, nel centro nuovo del nostro essere corpo umano.

Potenza, ore 18 – Antonio Califano

Riflessioni un po’ Zen

“Quando battiamo le mani sappiamo il rumore che fa una mano contro l’altra, ma qual è il rumore di una mano?”

Mi interessa parlare di nuovo dello spazio, o meglio dei luoghi, per ognuno di noi lo spazio esiste perché è una successione di luoghi che “abitiamo”, percorriamo in successione. Di questi arresti domiciliari, a cui ci sottopone il Sig. Coronavirus, la cosa che più che ci penalizza è l’impossibilità della percorrenza. Deleuze, riprendendo Bergson, ci dice che il movimento è altro dallo spazio percorso, “il percorso è passato, il movimento è presente”. A noi manca il presente, ci è negato, perché si nega il percorrere. E noi come facciamo? Costruiamo immagini che siano movimento, immagini/movimento. Deleuze ci dice anche come, con il cinema perché ”il cinema non ci dà una immagine a cui aggiungerebbe movimento , ci dà immediatamente una immagine movimento”. E qual è la differenza? La so, ma non ve la dico, arrovellatevi il cervello così pensate, vi passa la voglia di uscire, rimanete in casa, non soffrite, e soprattutto non scrivete cose di cui potreste pentirvi che rimangano in rete come “message in a bottle”, per sempre. E se non fate i bravi domani attacco con i “sprechen spiele” di zio Ludovico, è una minaccia. Io oggi mi sparo “Film Rosso” di Kieslowski e chi si è visto si è visto.

Avigliano, ore 18:00 -Ippolita Lorusso

Non sono mai stata su un ottovolante, in realtà non amo la confusione e il brivido del luna park, ma in questi giorni sto assaporando il brivido di un giro lunghissimo proprio su uno di questi giochi

Che poi tanto gioco non è

L’umore va su e giù

Passo dalla più totale serenità ad una angoscia fitta e mordente, che mi attacca lo stomaco e mi azzanna l’anima

Il sole fuori dovrebbe darmi quella pace solita, respirare l’aria pulita baciata da un raggio tiepido mi mette sempre di buonumore

Non oggi, non in questi giorni sospesi

Sono uscita di casa, addetta alla spesa e ho fatto una breve visita ai miei genitori non tanto anziani quanto acciaccati

Non mi è stata di conforto neanche questo tentativo di evasione, neanche le carezze che ho dato e che ho ricevuto parlando con i miei

Le mascherine, le accurate distanze, gli sguardi a tratti impauriti e minacciosi dei pochi avventori nel piccolo negozio di paese hanno appesantito ancor di più il mio umore

Il maresciallo dei Carabinieri mi ammonisce scherzando ma non troppo: “mi raccomando signora, dopo il giornale a casa “

Entro nella piccola edicola di mio nipote e ne esco affranta per le difficoltà in cui versa in questo maledetto momento

Sono a casa

Sono al sicuro

Un paio di lacrime mi scendono sul viso

Forse qualcuno in più

Ho paura ma non lo riesco a dire

Potenza, Ore 18:40 – Alessandra Santoro

A tempo di Virus

E’ difficile in questo periodo pensare all’Oggi.

Pensiamo al “Prima” e al “Dopo” ma non all’Oggi. A quello non vuole pensarci nessuno perché è drammatico, lungo, pesante.

La Pandemia, dichiarata ufficialmente appena 7 giorni fa, sembra esser diventata già uno stato mentale per alcuni di noi.

Parliamo del mese scorso definendolo con un lontano e imprecisato “Prima”.

Come se quasi non ci appartenesse più. Il senso del tempo si è diluito in un brodo insapore che mandiamo giù lentamente e senza fame.

Ci siamo rinchiusi in casa poco dopo il discorso febbricitante del Presidente Conte, per il nostro bene e per quello comune.

Malaticci senza esserlo realmente, con ipocondrie a singhiozzo alternate da isteriche euforie dai balconi delle nostre case, come tanti carcerati a Capodanno.

Ora lavoriamo in smart, o non lavoriamo affatto o ci preoccupiamo dei nostri negozi e aziende che devono rimanere chiuse per chissà quanto ancora e non ci sono certezze su un’economia che potrebbe sbriciolarsi da qui a poco.

Tagliamo il tempo a fette spesse per farlo passare prima. Tra pulizie di casa, scricchiolanti sedute ginniche che si concludono con patatine e pizza da asporto sul divano.

Usciamo per lo stretto necessario. Grande spesa per avere già tutto in casa o chi se frega che tanto mangio poco, basta che ho Netflix e un buon libro con me.

E poi l’attaccamento morboso ai social, per “controllare” gli stati d’animo degli altri per vedere se in qualche modo ci assomigliano, se la loro condizione di isolati si intoni alle regole imposte e sia socialmente corretta.

Tutto strano, assurdo, folle ma incredibilmente giusto, sulle prime.

Poi, dopo la prima settimana, è cominciata una specie di rassegnazione mista a compiaciuto senso civico, che ci ha fatto percepire una quasi normalità.

Abbiamo letto notizie sulle condizioni dell’ambiente che migliorano di pari passo con il nostro isolamento. Il monossido che si riduce velocemente, i pesci nelle lagune e perfino i delfini nel golfo di Venezia.

Bello. Come può nascere qualcosa di bello da un evento terribile?

E’ così, la paura e l’angoscia si sono ritratte per lasciare spazio a nuove riflessioni, negli interstizi di tempo in cui non scegliamo di non vedere o ascoltare l’urlo furioso della morte e della malattia che ruggisce dai telegiornali, abbiamo avuto il tempo di iniziare a capire che questa condizione forse ci sta cambiando. Da dentro. Che sta scavando nelle nostre abitudini e sta modificando in meglio il mondo intero.

Come se ci piacesse, infondo, questo silenzio esterno, quest’ordine di cose e di idee e la prospettiva che tutto si sia fermato.

E ci sfiora appena l’idea che possa piacerci al punto da desiderare che tutto continui così. Anche dopo.

Perché, anche se non sappiamo quando, un Dopo busserà alla porta e dovremo aprirgli.

Cosa cambierà quando usciremo da casa, e soprattutto cambierà davvero qualcosa?

Vogliamo veramente lo stesso “Prima” che adesso, a confronto sembra solo così caotico, sporco, confuso e vorace?

Forse no.

E allora fantastichiamo su un Dopo che magari, anche solo un pò, assomigli a questo Oggi. Con più libertà certo, ma più lento, silenzioso, consapevole e pulito.

Perché ci siamo forse resi conto di averne bisogno davvero, che domani non sarà più un virus a chiederci di fermarci, sarà la nostra stessa natura a farlo.

Tolve, ore 21:12 – Rocco Mentissi

Chi non regge il mistero ha bisogno di colpevoli, chi non regge l’insondabile erige eroi. Non riusciamo a cogliere quanto c’è di sensazionale nella normalità, il miracolo quotidiano: vedere, ascoltare, toccare, respirare.

Sono a casa e sono la casa. E’ leggera se sei abituato ad abitarti, è il prolungamento del tuo corpo, se hai messo dentro solo ciò che ti appartiene. Allora sei dentro ma sei anche fuori. Siamo alberi dalle radici invisibili, dita di una stessa mano che soltanto unite formano una carezza. Ma oggi è la festa del papà, guardo il cielo e gli scrivo:

Tante volte ti ho visto entrare

dalla porta delle mie stanze vuote

dove la sete di parlarti

disegnava il tuo volto

Chiedevo al tempo, che avaro non concede,

un solo accento,

una sillaba della voce tua

Nulla

solo io

a chiedermi se ho sbagliato il viaggio

a pregare che la tua invisibile mano

guidi ancora il mio timone

Adesso io e te

nel bianco e nero della foto

io, piccolo e incerto,

sulle tue ginocchia,

occhi dolci e fieri,

tu

Firenze, ore 23:00 -Rossella Spiga

Mi chiedevo mesi fa come sarebbe stata la primavera qui sulle colline. Mi chiedevo che odore ci sarebbe stato, e se ci sarebbe stato vento. Speravo di sì.

Oggi mi chiedo se siamo stati davvero quel giorno al mare, se eravamo noi a scherzare e ridere dopo aver fatto colazione per calma. Eravamo noi?

La primavera non è ancora iniziata.. e non ricordo più se eravamo noi.

Troppi ricordi si mescolano confusamente e perdono senso. Molte domande restano sospese, e forse le avrò dimenticate quando sarà finito questo lungo inverno.

Aspetto stancamente nella casa in collina, e siedo al vento sotto il portico.

Sai dove trovarmi.

Esci dalla statale a sinistra e

scendi giù dal colle. Arrivato

in fondo, gira ancora a sinistra.

Continua sempre a sinistra. La strada

arriva a un bivio. Ancora a sinistra.

C’è un torrente, sulla sinistra.

Prosegui. Poco prima

della fine della strada incroci

un’altra strada. Prendi quella

e nessun’altra. Altrimenti

ti rovinerai la vita

per sempre. C’è una casa di tronchi

con il tetto di tavole, a sinistra.

Non è quella che cerchi. È quella

appresso, subito dopo

una salita. La casa

dove gli alberi sono carichi

di frutta. Dove flox, forsizia e calendula

crescono rigogliose. È quella

la casa dove, in piedi sulla soglia,

c’è una donna

con il sole nei capelli. Quella

che è rimasta in attesa

fino ad ora.

La donna che ti ama.

L’unica che può dirti:

Come mai ci hai messo tanto?”

(Raymond Carver, Attesa)

Matera, ore 22:10 – Doreen Hagemeister

“QUASI”

Non so a che numero siamo arrivati. 37 casi in Basilicata circa 11 ore fa… Aspetto le notizie. Sto in una fase di letargo. Oggi sono 14 giorni che sono a casa. Ci sono momenti in cui pesa tutto, momenti di totale indifferenza e svogliatezza … e poi i momenti in cui va tutto bene … in cui si ride e si scherza in casa … in cui si fanno insieme i compiti, si lavora, si fanno i servizi … le telefonate con gli amici … in cui sembra quasi tutto normale.

Ecco! Il problema è il “quasi”.

quaṡi avv. e cong. [lat. quasi]. – 1. a. Circa, pressappoco, poco meno che; indica in genere che la quantità, la qualità, la condizione espressa dalla parola o dalle parole seguenti non è pienamente raggiunta ma si è a essa molto vicini: è qun litropesa qun quintalel’ho pagato qmille euroha qtrent’anni ormaiè qun’ora che aspettoè già qseraè qfinitoso qtuttosono qugualiero qprontomi scrive qogni giornogli parlò con affetto qpaternosono qpentito d’averglielo dettonon è qmai in casaal viso mio s’affisar quelle Anime fortunate tutte quanteQuasi oblïando d’ire a farsi belle (Dante). Con funzione attenuativa: direi q., oserei qdire che, e sim., volendo temperare l’arditezza di ciò che si afferma…” (Treccani)

Sembra quasi normale… Sono nervosa e mi rendo conto che di normale non c’è nulla! Cerco di rendere normale la giornata. Non è facile. Un animale sociale come me chiuso in casa! Lavoro… lavoro… lavoro!

Quasi normale… vedo la gente con le mascherine e i guanti buttare la spazzatura… qualcuno corre in solitudine … qualcuno passa col cane (e mi vien da ridere avendo visto tante battute sui cani costretti dai loro padroni a uscire…), la mia gattina osserva insieme a me la strada… lei adora stare sulla ringhiera e osservare, curiosa…

Insieme vediamo, ma ancora prima di vedere, sentiamo l’altoparlante della macchina della polizia “Restate a casa per evitare il contagio!!!” Fa impressione sentirlo… È la prima volta in queste due settimane che lo sento…. Non sono abituata! Rende l’atmosfera surreale… la carica di paura! Quando andiamo a Vasto, al mare, sento “È arrivato l’arrotino…” e nel paesino di mia suocera mi è capitato di ascoltare “Donne, venite, c’è frutta e verdura per voi!” … Sono abituata a chi grida nei mercati, per farsi sentire e vendere di più… non sono abituata ad essere invitata a rimanere a casa! Ecco, che torna il “quasi” a infilarsi nella mia giornata (QUASI) normale.

Quasi

Quasi quasi

Quasi quasi chiudo con Quasimodo “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.” (versi tratti dalla poesia “Ed è subito sera”)

Ecco… ora sono tornata sorridente! Grazie Quasimodo!

Asti – ore 22:00 – Carmela Bruscella

La situazione sta peggiorando. Aumentano i morti, sono maggiori di quelli cinesi, forse il motivo potrebbe essere attribuito al fatto che in Italia la popolazione anziana è numerosa; la media dell’età delle persone decedute è di circa 81 anni.

In televisione e sui social hanno fatto vedere un video girato a Bergamo che inquadrava una lunga colonna di mezzi militari che trasportavano le bare dal cimitero della città ai forni crematori di altre Regioni perché non c’era più posto. Questa scena ha colpito tutti ed è scomparsa quella voglia di cantare e suonare dai balconi di tutta Italia, ottima terapia contro la paura. Ora invece è tempo di restare in silenzio, sempre uniti ma in rispettoso silenzio per ricordare quelle persone.

Ci sono altre persone che vengono ringraziate continuamente e in ogni modo e sono tutti coloro che sono in prima fila contro questa guerra inaspettata: i medici, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari ed il personale addetto alle pulizie degli ospedali che stanno facendo miracoli soprattutto negli ospedali del Nord. Siamo diventati “l’esempio italiano” e gli altri Paesi stanno copiando il nostro modo di affrontare questa epidemia.

Per chi ha fede, questo è il momento della preghiera e credo che l’unica cosa che unisca gli atei ed i credenti sia la speranza.

Villa d’Agri ore 23:00 – Antonella Marinelli

QUEI BAMBINI NELLA PANDEMIA

Decimo giorno rosso. Li state guardando i vostri figli. Abitano la casa stretti e piccoli con disinvoltura. Il mio bambino ha quasi otto anni, ma molti di più nella consapevolezza del momento. Anche se non posso negare che a ogni proroga del rientro a scuola tira giù gomito e pugno tre volte come nel magico rito di chi è a ridosso delle vacanze e poco importa se la vita si svolge tutta dentro la casa che lo ha visto crescere.

Fa come se nulla fosse, mi aiuta con l’elenco della spesa e quando ce la recapitano si allontana perché io possa igienizzare il possibile. Dopo un po’ fruga con gli occhi e mi chiede il suo snack preferito. Quando mi vede scrivere, forse per darsi un tono da enfant prodige o semplicemente per farmi felice prende a leggere Gol di Luigi Garlando che racconta le avventure, i sogni, le sfide delle Cipolline, un gruppo di ragazzi con la grande passione del calcio, guarda un po’.

Proprio ieri abbiamo deciso di uscire, ci siamo coperti e siamo usciti in balcone. Noi viviamo al primo piano, un primo piano molto alto e tra noi e la strada un pino e una mimosa che ieri striavano la luce di un sole che si stava incastrando sul tetto della casa di là della via. Mio figlio ha calciato un po’ il pallone e poi ha poggiato il mento sulle manine attaccate alla ringhiera. Non ho capito bene se stesse guardando o pensando, ma l’ho lasciato così qualche secondo nel suo piccolo grande mondo. Non l’ho determinata io la pandemia eppure mi sento in colpa per mio figlio, per tutta la vita di cui in questi giorni si dovrà privare.

E’ poi giunta l’ora di cena :”Mariano lava le mani contando fino a venti ok?”.

Potenza, nel cuore della notte – Katia Genovese

Mi sveglio di soprassalto, sopraffatta dalla paura, sconcertata non riesco a convincermi del perché un virus così piccolo possa mettere in ginocchio un mondo così grande è un po’ come la storia dell’elefante e il topolino. Cerco in tutti i modi di distrarmi pensando ad altro, ma la paura non rispetta i limiti, sconfinata, fredda, acuta, pungente.

Penso a questi ultimi giorni, durante i quali è tutto ridimensionato, la casa diventa un posto “sicuro”, sede di lavoro, di studio, di svago, di tutto… ed è persino capace di contenere la fitta rete di contatti virtuali con il mondo esterno, seppure siano molteplici. Casa è quel posto grazie al quale è permesso a tutti di tornare un po’ indietro nel tempo, esattamente a quando bastava assicurarsi che tutti i membri della famiglia fossero rientrati e chiuder bene la serratura per sentirsi protetti.

Il respiro… o meglio “πνεύμα”, sì care reminiscenze del mio amato liceo, come soffio che ci tiene in vita si fa corto ed affannoso. Guardo i tg e malgrado li odi aspetto con ansia di sentire numeri, il cuore in gola ogni volta! Ho visto video agghiaccianti in cui si prova a dar voce a questo virus che strappa alla vita in maniera prematura, senza troppa premura, non lascia tempo nemmeno per un saluto… ( ed io ho fatto tanto per venire al mondo qualche mese prima e non concepisco che venga tolta, in maniera così crudele e repentina, la bellezza di restarci).

Nei numerosi video che girano sul web sembra che questo COVID-19 ci stia invitando a tornare umani, sembra stia facendo tutto questo per noi, sembra voglia restituirci il bello che è andato perdendosi vista la continua corsa contro il tempo, la sete di potere e tutte le conseguenze ambientali scaturite da una generale noncuranza. Lo si impersonifica con la voce di chi vuol far del bene, eppure persino io non riesco a crederci, mi sembra spietato. E mi chiedo si può apprezzare mai qualcosa che fa tanto male, anche se a fin di bene?

Potenza. Ore 24.00 – Pino Paciello

Coglione! Dove vai? Torna a casa.

E’ l’epiteto che un signore (sic!) da una finestra ha proferito al mio amico che usciva dalla casa dove si era recato per accudire il padre di 98 anni.

E’ solo lo step successivo a quello ascoltato dalla finestra di casa mia quando, ieri, una pattuglia, di non so quale corpo (fuori dal mio campo visivo), ha urlato a qualcuno con voce metallica e amplificata: Lei non può stare qui, deve rientrare a casa! 

Ebbene, caro diario, ci siamo. L’argine della convivenza civile sta per cedere.

Se ancora è tollerabile che le forze dell’ordine esortino chi riesce a trafugare un minuto d’aria a rientrare a casa non ho, invece, alcuna indulgenza per un privato cittadino che, seppur in uno stato di inquietudine, voglia limitare la libertà di qualcuno.

Inutile riportare che il mio amico è persona aggiornata sulle procedure da utilizzare nei suoi spostamenti e consapevole di non arrecare alcun danno a chi gli sta intorno.

Perché tutto ci possiamo permettere tranne che si passi da uno stato di responsabilità a uno stato di paura con le conseguenza sociali che ciò comporta. Rimanete sintonizzati su questo argomento, è solo l’inizio, un altro mese di quarantena e ne vedremo delle belle. Anzi brutte.

Potenza, ore 23:55 – Luca Rando

Da due giorni sono chiuso in casa. Mia moglie, sempre più preoccupata, ha deciso che io sono quello più a rischio nella famiglia in quanto maschio anziano sofferente d’asma. Così è venuta meno l’uscita quotidiana (temo l’abbia fatto per avere lei la mezz’ora d’aria) e lo sguardo al ponte di Montereale. Non dico che mi dispiaccia non uscire, sono sempre stato un casalingo a cui piace leggere in un angolo della casa, ma il pericolo è essere risucchiato nello schermo del computer senza possibilità di salvezza. 

Fino a poco fa quel pericolo c’era, ora, sul limite del nuovo giorno, non più. Leggo e annoto. Come quando trovi un senso alle parole che ascolti in una canzone o che stai leggendo da minuti e non le comprendevi.

L’altra notte ho messo la faccia nel buio

non c’era che la mia faccia non c’era niente

non si muoveva un solo rumore nè una sola evidenza

animava al soprassalto, neanche il sospetto

di un’assenza concentrata in ombra

c’era solo la pressione del nero sugli occhi

con quella della nuca sul cuscino

e tutto attorno, qualcosa tutto attorno

conteneva quell’oscurità e me.

(Pierluigi Cappello)

Latronico, ore 9,45 – Giovanni Forastiere
– Ricevo avviso dall’Ufficio Postale per ritirare qualcosa ( credo la nuova carta d’identità)
– Sono uscito ieri pomeriggio per la spesa settimanale
– Telefono per chiedere se posso ricevere il pacco a casa, così da evitare di uscire di nuovo ( e non mi spiego perchè il 16 marzo il postino non mi abbia trovato : forse non ha pigiato bene il tasto del citofono? in caso contrario, anche se io e mia moglie non l’avessimo sentito, magari perchè lei nel patio, io sotto la doccia ( o viceversa) , i nostri quattro cani avrebbero avviato un vero e proprio ”concerto” )
– Mi si risponde che ai sensi delle nuove norme, il postino non consegna pacchi che richiedano la firma digitale, ma solo l’avviso di recarsi nell’ufficio postale, così si firma la ricevuta ad almeno un metro di distanza ( ah, ecco! quindi il citofono non l’ha proprio usato )
– Decido di andare alle 13,00, orario di minimo afflusso 

Mi domando: sono cretino ( o ” esagerato”) io, di fronte agli intelligentoni sulla collina di San Siro ed i loro emuli in tutt’ Italia?

Potenza, ore 22:30 – Giampiero D’Ecclesiis

Vi ho mai parlato di Miles?
E’ iniziato per gioco, ho immaginato il mio alter ego, un legionario romano, capocenturia nella XIII Gemina, vecchio, ossuto, brontolone, ubriacone, vecchio mastino da guerra sempre pronto a menare le mani e a cantare canzonacce oscene.
E’ lui che mi fa tenere dritta la schiena, che mi rifila un calcio in culo quando mi deprimo o quando non ho voglia di fare le mie cose.
Curre Tiro!”, mi grida e mi rifila un calcio nel sedere: Corri Recluta!

Ore 22:30, nel letto. Fine giornata.
Ed eccomi qua, una giornata subissato da vagonate di parole, citazioni, chiacchiere, poesie, pensieri alati sui padri a riflettere che oggi non visto i miei ragazzi, certo li ho sentiti ma non è lo stesso.
Come dite? No. Per niente. Non è che io sia particolarmente legato a giornate come queste e neanche voglio fare la lagna, potevo andare io a trovarli ma…Covid19 e non solo, si mettono di mezzo e, per garantire la mia di tranquillità, ho preferito lasciar stare.
Magone?
No, nessun magone. Solo che…
CURRE TIRO !
Fine riflessione.

Potenza, 19 marzo 2020 – Maurizio De Fino

Oggi Il mio nipotino Maurizio compie un anno ed io non potrò essere con lui. Quando tutto sarà finito e sarà cresciuto gli racconterò di quel lontano 2020 che ci vide prima osservatori distratti di ciò che avveniva in Cina e poi, pian piano, protagonisti della più poderosa pandemia del XXI secolo.
Gli racconterò degli eroi del settore sanitario che affrontarono con i pochi mezzi a disposizione quel subdolo e maledetto coronavirus che sfruttava per la sua proliferazione e diffusione una delle caratteristiche dell’intera umanità: la vicinanza ed i contatti tra le persone. Bastava avvicinarsi e parlare con un amico, un collega, chiunque inconsapevolmente infetto da quel piccolissimo filamento di Rna e tutto aveva inizio. Con le emissioni di infinitesimali particelle d’acqua in cui albergava, raggiungeva le vie respiratorie dell’ignaro vicino ed un nuovo contagio si perpetuava ed un nuovo untore si muoveva inconsapevole. Esponenzialmente l’epidemia dilagava e quando i primi sintomi emergevano, si era già in ritardo per correre ai ripari.
Gli racconterò del sacrificio dei giovani medici che appena usciti dall’Università si ritrovarono in prima linea a dare supporto ai loro colleghi esperti rischiando la propria vita per quell’ideale che li aveva spinti ad iscriversi a medicina, angeli che, con poche protezioni, si prodigarono con tutte le loro forze.

Gli racconterò del valore della consapevolezza e del senso civico che ci permise lentamente di venirne fuori cambiando radicalmente la nostra vita.

Gli racconterò dei governi che in tutto il mondo si accorsero che non serviva alzare muri, innalzare barriere religiose, combattere flussi migratori per migliorare la vita di pochi a discapito di altri. Il virus, nella sua forza di contagio, non si dimostrò selettivo. In Italia colpì per prime le zone delle regioni più ricche dove subito contagiò migliaia di persone e poi, da qui, ospite occulto, fu trasportato ovunque. E così tutti ci accorgemmo che c’erano altri nemici da combattere e che non c’era nessun uomo di qualsiasi nazionalità, per abitudini di vita, ceto sociale, etnia o religione che poteva sentirsi al sicuro. Eravamo solo uomini fragili che potevano contare gli uni sugli altri affinché l’epidemia non dilagasse in maniera incontrollata. Nessuno poteva sentirsi al sicuro. Nessuno. Si ammalarono capi di stato, segretari di partito, senatori, onorevoli, medici impiegati, baristi, pensionati, imprenditori, disoccupati, amici. Non c’era differenza tra uomo e donna adulto o bambino se non in termini di percentuali, e così andò avanti. Gli anziani e chi aveva già delle patologie furono i primi a cadere, contagiati forse dalle persone più care, quelle più vicine. I sensi di colpa covarono a lungo in tutta la popolazione ed ancora oggi molti dei contagiati e poi guariti dell’epoca si portano nell’anima il dolore di essere stati forse loro a trasmettere ai loro cari quel maledetto virus. Quel senso di rammarico e di dispiacere è in tutti noi e non ci lascerà mai.

Caro Maurizio sappiamo tutti che avremmo potuto fare di più, molto di più. Gli obblighi sempre più stringenti emanati dal governo ci portarono a stare a casa. Forse si poteva fare prima, ma nessuno poteva immaginare quello che sarebbe avvenuto in seguito. Non eravamo pronti, non eravamo abituati a vivere così. Chiusi.
Andava fatto e non era una scelta personale. Tutti potevano essere contagiati e contagiare. Era giusto così ed un po’ alla volta fu chiaro a tutti. Alcuni di noi che continuavano a lavorare a supporto di quelle attività escluse dai provvedimenti perché utili alla circoscrizione del contagio, al rientro dal lavoro decidevano di mettersi in una stanza della propria abitazione cercando di non avere contatti con i propri cari. Una quarantena nella quarantena.
Si cercava di fare tutto quanto era possibile e ci si arrabbiava quando le notizie ed i filmati postati in rete mostravano, nonostante tutto, ancora assembramenti di persone. Persone che mostravano quanto l’uomo può essere stupido. La rabbia e la tensione salivano e le discussioni in casa erano frequenti. La cosa che mi confortava era sapere i miei cari a casa. Chiusi in casa. Le raccomandazioni che ci facevamo erano sempre le stesse. “Esci solo se strettamente necessario”, “ Mantieni la distanza di sicurezza da chiunque”, “Hai messo la mascherina, ti sei lavato bene le mani, come ti senti?”

Tutte attenzioni per combattere quella che era diventata “la bestia”.

E si, caro Maurizio, fin quando lo abbiamo considerato un piccolo ed invisibile filamento di Rna che cercava solo di replicarsi, non ci faceva tanta paura e un po’ lo sottovalutavamo. È da quando abbiamo cominciato a chiamarla “la Bestia” che abbiamo preso vera coscienza del pericolo. Quello è stato il momento del risveglio. E’ da lì che siamo ripartiti. Il mondo della finanza finalmente capì. Il primo passo lo fece la Bce che non mise limiti di spesa e stanziò centinaia di miliardi di euro per l’emergenza. I governi si resero conto che tutto stava cambiando e che non c’era più tempo. Bisognava affrontare subito i problemi che affliggevano il nostro pianeta. Gli investimenti in armamenti subirono una flessione dell’ottanta percento a vantaggio della sanità che fu potenziata in ogni stato. Tutti i governi si munirono di una task force per interventi mirati a debellare i contagi virali sul nascere. Anche le grandi case farmaceutiche responsabilmente decisero di non speculare. Come italiani fummo orgogliosi, il nostro sistema sanitario venne preso ad esempio in tutto il mondo. Si mise fine alle speculazioni finanziarie, il denaro non generò più danaro senza prima essere impiegato nell’economia reale, le produzioni si moltiplicarono nel pieno rispetto dell’ambiente. I cieli diventarono più blu e l’aria si fece più pura ed è quella che tu, caro Maurizio, oggi respiri.

Il Covid-19 ha lasciato una piaga indelebile in ognuno di noi, ma da lì siamo ripartiti.
Proprio il giorno del tuo primo compleanno il 19 marzo del 2020 chiamai tua zia Adelaide per dirle che c’era una frase in dialetto potentino, una frase azzeccata per dire cosa si dovesse fare in quei giorni, in quei mesi. Oggi non si usa più ed anche il dialetto è ormai quasi del tutto dimenticato.
La frase era usata da quei genitori che, spazientiti per non vedere i figli rientrare a casa all’orario stabilito, uscivano a cercarli per strada. Finalmente trovati gli gridavano un ordine tipicamente potentino ed in potentino che suonava più o meno così:
“Mannaggia a te, mò taia arrtrà“ e con il braccio disteso e l’indice puntato verso casa aggiungevano in maniera perentoria:
“Iesc n’gasa”
E così caro Maurizio, così facemmo tutti. Ci ritirammo nelle nostre case, con le nostre famiglie e con tanto sacrificio ed impegno ne venimmo finalmente fuori. Il mondo iniziò a cambiare. Ma questa è un’altra lunga storia che dovrai scrivere tu, tu che compivi un anno il 19 marzo del 2020.

https://www.totemmagazine.it/tenera-e-la-notte/
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