
Ore 08:30 del 22 maggio 2010 – Nonostante la giornata libera non si riesce a dormire. L’adrenalina in circolo è tanta. C’è fermato, si avverte. Un misto di tensione e attesa che, da un lato, paralizza e, dall’altro, sembra quasi inebriare. Una sensazione ‘includente’, che fa sentire parte di un tutto. Si ha la convinzione di andare incontro alla storia, nerazzurra e calcistica. Una storia che, come tifosi, ci fa sentire testimoni ma anche attori. Ebbene sì, attori. Perché a Madrid ci siamo arrivati anche noi, con i nostri sogni, con i nostri cori, con i nostri pianti, con quegli anni di sofferenza che fortificano i legami e gli amori veri.
Ore 10:30 del 22 maggio 2010 – Dopo la colazione consumata fagocitando tutto ciò che passa il tubo catodico sul tema, una scorribanda internauta, una toilettatura, un bacio alla mamma, si esce. I fratelli nerazzurri sono lì, in piazza, al bar. Una rapida lettura dei quotidiani, uno sfottò dei tifosi avversari, le solite provocazioni juventine lasciate cadere con garbo e ironia, qualche gesto scaramantico in risposta a chi ci vede già in veste godereccia e trionfante. Poi si passa al piano d’azione. Il 5 maggio 2002 è ferita aperta, è nervo scoperto. Non è soltanto una disfatta calcistica. È qualcosa che non ti lascia più vivere in maniera sana la competizione e l’attesa. Ha reso noi interisti diffidenti, frenati, bloccati. ‘Ma al diavolo il 5 maggio’, diciamo in coro. ‘Prepariamoci a festeggiare, svestiamo le vesti degli impauriti. Come va, va. Abbandoniamoci al destino. Peraltro siamo arrivati fino a qui, ce la faremo’. Questa la sintesi ultima del nostro ragionamento. In realtà l’idea della sconfitta non ci sfiora minimamente. Troppi segnali positivi, troppe tracce incoraggianti. Quel mix di forza, fortuna ed episodi favorevoli ci portano oltre ogni ragionevole dubbio. E poi c’è lui, lo specialista: José Mourinho, lo Special One. Un taumaturgo contemporaneo, capace di entrare nella mente, nella pelle e nel cuore. In ogni caso il pranzo si avvicina e decidiamo di darci appuntamento nel primo pomeriggio.
Ore 15:30 del 22 maggio 2010 – Il pranzo è stato veloce e leggero. Non c’è voglia di sprecare neanche un minuto. Ci sarà una vita per fare il resto. Adesso c’è l’Inter. Ho sempre vissuto nel mito dell’Inter, amore di famiglia da generazioni. I racconti dell’Inter del mago Herrera, delle gesta dell’intramontabile Facchetti, di Sarti, Burgnich, Picchi, Jair, Mazzola, Corso, Peirò mi hanno sempre proiettato in una dimensione quasi romanticamente fiabesca. Essere interisti è una missione, una vocazione. L’interista è una categoria antropologica. Con l’Inter il calcio si fa poesia e filosofia, in senso eziologico e a volte struggente. Però oggi abbiamo l’occasione per ribaltare i luoghi comuni. Lo dobbiamo a noi, anime raminghe che vogliono fermare le lancette della storia. Arriva Marco, uno dei fratelli nerazzurri, che è riuscito a requisire il camioncino allo zio. Gentilmente credo. Ci posizioniamo poco distanti da casa mia per bardarlo a dovere. Di nerazzurro vestito il camioncino acquista un mood scenografico da far invidia anche alla Curva Nord.
Ore 18:30 del 22 maggio 2010 – Terminiamo le operazioni di vestizione del mezzo tra sorrisi, battute, abbracci, pacche e fiumi di birra, tanta birra. La birra fresca è il cemento che tiene uniti gli amici in ogni occasione. Abbiamo una bella scorta anche per la sera. Ripetiamo insieme la scaletta della serata, nulla è lasciato al caso. Abbiamo gadget, sciarpe, bandiere e un armamentario di idee. Decidiamo di nascondere il mezzo e ricoprirlo di rami. Non per un vezzo apotropaico ma per evitare che possa essere profanato da qualche malintenzionato, magari rosicone. Ci abbracciamo un’altra volta prima di una doccia che ci liberi del sudore ma che ci lasci addosso l’odore della condivisione.
Ore 20:45 del 22 maggio 2010 – Decido di vedere la partita a casa dell’allora mia fidanzata (adesso mia moglie). Casa di milanisti, amanti del calcio e della musichetta della Champions. Penso che quella casa abbia visto 7 trionfi rossoneri e, quindi, rappresenti il giusto tempio in cui celebrare e consacrare anche la mia prima vittoria internazionale come tifoso nerazzurro. Poi ho seguito dallo stesso divano tutta la cavalcata. Mi sembrerebbe oltremodo ingeneroso nei confronti del fato e della sorte. Marianella avvia il suo monologo come incipit di presentazione. Le formazioni sono quelle annunciate alla vigilia. Ai bavaresi manca, per squalifica, una delle frecce più infuocate: Ribery. L’unico spauracchio sembra essere l’altro esterno d’attacco, Robben. Penso che forse Mou avrebbe dovuto contrapporgli il Pupi Zanetti, anche perché destro naturale e quindi più portato, rispetto a Chivu, a posizionarsi naturalmente con il corpo in modo tale da non consentire al talentuoso olandese di ‘entrare dentro al campo’. Ma poco importa, lo Special One si ama, non si discute. Il mio approccio è decisamente soft. Non avverto magone né stravolgimenti di stomaco. Vivo la partita con una serenità tipica delle partite del precampionato. Sarà che ho esaurito tutte le energie nervose durante il match di ritorno del Camp Nou e che, oggettivamente, sento il successo in pugno. I tedeschi come al solito sono scolastici, mostrano i muscoli e gonfiano il petto ma, poi, quando si tratta di ragionare in maniera umile, perdono le guerre. L’Inter lascia il possesso, utilizzando quella strategia posizionale che ne ha contraddistinto una stagione fin qui vincente, ribatte con pericolosità e si limita a fare occupazione degli spazi. La pericolosità offensiva dell’Inter si avverte a ogni folata cinica e studiata minuziosamente. Dopo le prime occasioni sciupate di un soffio e le avvisaglie di cedimento dei marcantoni della retroguardia del Bayern, arriva il goal che sblocca la partita e indirizza il match. Arriva nella maniera più semplice ed elementare che esista: lancio chirurgico di Julio Cesar, Milito prende posizione e spizzica per Sneijder che calcola l’istante esatto per restituire la palla al puntero argentino e lo manda in porta. Il resto lo fa Badstuber che resta a sorseggiare un aperitivo sulla fascia e la capacità mortifera del Principe di Bernal con la 22 sulle spalle. Palla in buca. La partita si trascina con lo stesso clichè: il Bayern prova a rimettersi in partita ma deve fare i conti con la muraglia imperforabile nerazzurra e con un Julio Cesar mai traballante; l’Inter sguazza nel suo habitat naturale fatto di transizioni di qualità. Il 2-0 è la logica conseguenza. Come nella prima rete, bastano due uomini e le logiche semplici del calcio che si impara per strada: Eto’o la scambia con Milito che, con un semplice passo da Danza del Cigno, manda il goffo Van Buyten a prendere un digestivo e infila la porta bavarese per la seconda volta. E’ il sugello che diventa sigillo. La vittoria è in cassaforte. Il resto è gestione accademica: Pupi Zanetti va a sinistra e Stankovic va ad affiancare Cambiasso in mezzo, Mou regala la passerella anche a Matrix con un gesto che solo i grandi uomini sanno fare. Arriva il triplice fischio. Alzala in alto capitano.
Ore 23:15 del 22 maggio 2010 – Le immagini mi inchiodano allo schermo ma ci sono i fratelli nerazzurri ad aspettarmi. Ci sarà tempo e modo per rivedere tutto con calma. Indosso la maglia di Cambiasso e parto. Cambiasso per me è un’istituzione. E’ tutto: attaccamento, didattica. E’ pedagogia calcistica. Raggiungo gli amici, mi tendono una mano e mi aiutano a salire sul pianale. Iniziano i caroselli in giro per la valle. I coro, i canti di giubilo, gli abbracci, il vento timido a scompigliare i capelli, la sciarpa intorno al collo. Mi sembra di essere proiettato in una realtà parallela. Una sorte di sincope emotiva che annulla i sensi. Non riesco a interiorizzare e metabolizzare una vittoria dall’alta densità simbolica. Una sorta di metempsicosi che riabilita e, forse, resuscita.