23 Novembre 1980, abitavo in un appartamento ricavato dal piano rialzato di un vecchio villino di campagna appena ristrutturato (la nostra fortuna), Giorgia aveva 2 anni, Roy il mio meraviglioso pastore tedesco era rannicchiato sotto un termosifone, era “strano” dalla mattina, Pina parlava con Angela, Felice, Rocco, io osservavo da una finestra un irreale cielo cobalto che cominciava a scurire. Poi all’improvviso quei terribili momenti, il pavimento che esplodeva, i libri e le suppellettili che volavano, un rumore indescrivibile, che ho continuato a sentire per anni, noi sotto un architrave immobili, Pina con Giorgia stretta in braccio, io che continuavo a dire “stiamo fermi, non muoviamoci, passerà”. Ma non passava mai. Poi ti trovi di botto in un frullatore, la vita accelera, perdi le certezze, non hai una casa dove dormire, non sai più come proteggere i tuoi cari, ti senti perso. Ma la reazione fu più forte del terremoto, scattò un senso travolgente di comunità, già dalla sera, subito a Montereale con tanti altri a dare una mano che era crollata una palazzina, c’erano dei morti. Poi i giorni dopo, nel quartiere con il comitato di quartiere, la comunità di base di San Giuseppe, con tanti giovani ragazzi e ragazze, tende montate nei giardinetti, la parrocchia, e il suo parroco Don Peppino Nolè che metteva tutto a disposizione, diventa il centro organizzativo, mentre anche negli altri quartieri ci si organizzava in maniera analoga. Da Bologna i compagni di DP mi mandano con Fabio, nostro consigliere comunale a Bologna e futuro fondatore di “Un Ponte per….” durante la prima guerra del golfo, una enorme roulotte per riaprire la sede , ricoverare gli amici. Giorni convulsi dove le capacità di autorganizzazione furono eccezionali, non c’era la protezione civile, lo stato, sempre, piuttosto “sgangherato”, ma c’era la politica, la militanza, i partiti, le associazioni, gli scouts, le parrocchie, c’era un paese ancora non incupito, c’era l’Italia. Un paese che, senza aspettare, con il volontariato si organizzava. Io con altri smistavo, da una roulotte, i volontari che affluivano da tutta Italia coordinati dall’Arci con un giovane dirigente, inviato a dare una mano, che poi diventerà un importante manager pubblico. I sindacati mobilitati, in primis l’immensa Cgil, le fabbriche locali e gli operai mobilitati per dare una mano, le mense montate a Chianchetta e Verderuolo per fare pasti caldi, con i meravigliosi volontari emiliani, le tagliatelle, l’efficienza di una generazione che aveva attraversato la storia figuriamoci se li fermava un terremoto, il campo montato a Francioso nel campetto da calcio dell’Enaoli con Michele Padula che organizzava un comitato di gestione. Non si può raccontare tutto, troppo complicato, doloroso, i fatti sono tanti, è stata la volta in cui mi sono sentito orgoglioso del mio paese, del mio quartiere, della mia gente, anche delle sue debolezze, delle sue inefficienze. Mi viene in mente un film di Nanni Moretti dove un profugo cileno scappato dopo il golpe militare e rifugiato da noi, ricordando la solidarietà degli italiani, dice “che grande paese che eravate”. E dopo una giornata di lavoro le assemblee nel salone della parrocchia del quartiere, io ateo, a discutere su come andare avanti il giorno dopo, come distribuire gli aiuti che arrivavano da tutto il paese, i lavori per allestire il campo roulotte, distribuire i compiti per il giorno dopo, tutti insieme con Bob, Rocco, Lello, Rocco il Barone, Pinuccio, Nicola (per citarne alcuni tra cui anche quelli che non ci sono più) e tanti altri, allora giovanissimi e cresciuti in fretta. Era un paese solidale, con una classe politica seria, pure quelli che la pensavano in maniera diversa da noi, anche con gli errori che si commettevano di continuo cui suppliva la partecipazione, il controllo popolare, l’autorganizzazione. Ma forse mitizzo, ero solo più giovane, forte, adrenalinico o sarà lo sconforto per la merda che ci circonda oggi. No, non si possono raccontare, o almeno io non ne sono capace, certe emozioni in 3000 battute e poi in questo periodo di “esposizione pubblica” di tutto, del nulla, le emozioni, alcune, quelle più profonde teniamole dentro che ci servono per andare avanti. Si può solo tentare di comunicare quelle emozioni, quei sentimenti, quelli che c’erano capiranno, quelli che erano troppo giovani per ricordare, o semplicemente non c’erano, possono, d.a.d permettendo, ascoltare.
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Ricordare un anniversario
doloroso come il terremoto del novembre 1980 mentre si vive un’altra esperienza
dolorosa come l’attuale pandemia, in un paese ormai diverso, con una regione
politicamente allo sbando e con indici preoccupanti di contagio è un’operazione
complicata, dolorosa ma forse utile, non so se ci riesco, ma ci provo.