Tra i tanti strumenti didattici, che adopero per insegnare la filosofia ma soprattuto per farla conoscere a fondo e, quindi, farla amare ai miei cari allievi, sono solito, anche, inserire ciò che il cantautore partenopeo Edoardo Bennato chiamava, in un suo famoso brano, “canzonette”. Queste nella loro apparente semplicità testuale, a mio avviso, contengono, oltre ad un forte e chiaro appeal comunicativo, profondi principi e prospettive che ben si sposano con le nostre tradizioni filosofiche. Voglio ricordare, a tal riguardo, un felice aforisma del grande compositore Nino Rota: “Il termine musica leggera si riferisce solo alla leggerezza di chi l’ascolta, non di chi l’ha scritta”. Spesso, infatti, nelle mie lezioni accosto a Socrate Caparezza, a Nietzsche Mogol, agli esistenzialisti Vasco Rossi e così via discorrendo. E visto che dobbiamo ripartire in questi giorni caldissimi d’estate e lasciarci alle spalle, speriamo una volta per tutte, il Covid-19, oggi propongo una breve analisi filosofica di una celebre canzone di Mogol e Battisti, che considero un inno alla vitalità e alla socialità, intitolato La collina dei ciliegi, di cui riporto qui il testo per intero:
E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante
Cancella col coraggio quella supplica dagli occhi
Troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante
E quasi sempre dietro la collina il sole
Ma perché tu non ti vuoi azzurra e lucente
Ma perché tu non vuoi spaziare con me
Volando intorno la tradizione
Come un colombo intorno a un pallone frenato
E con un colpo di becco
Bene aggiustato forato e lui giù, giù, giù
E noi ancora, ancor più su
Planando sopra boschi di braccia tese
Un sorriso che non ha
Né più un volto, né più un’età
E respirando brezze che dilagano su terre
Senza limiti e confini
Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini
E più in alto e più in là
Se chiudi gli occhi un istante
Ora figli dell’immensità
Se segui la mia mente
Se segui la mia mente
Abbandoni facilmente le antiche gelosie
Ma non ti accorgi che è solo la paura che inquina
E uccide i sentimenti
Le anime non hanno sesso né sono mie
Non non temere
Tu non sarai preda dei venti
Ma perché non mi dai la tua mano perché?
Potremmo correre sulla collina
E fra i ciliegi veder la mattina (e il giorno)
E dando un calcio ad un sasso
Residuo d’inferno e farlo rotolar giù, giù, giù
E noi ancora, ancor più su
Planando sopra boschi di braccia tese
Un sorriso che non ha
Né più un volto né più un’età
E respirando brezze che dilagano su terre
Senza limiti e confini
Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini
E più in alto e più in là
Ora figli dell’immensità
Dai primi versi si può cogliere l’invito tutto romantico, proprio nella sua accezione titanica, a superare i limiti che spesso la “saggezza” o il pensare comune ci impongono (la saggezza è la prudenza più stagnante).
Nel verso, invece, “al di là della collina il sole”, si condensa il fine che muove tanti filosofi, cioè quello di abbattere i pregiudizi (la collina) che distolgono l’uomo dalle verità e da una vita più intensa (il sole). Pregiudizi che non solo oscurano il mondo, ma anche noi, che li indossiamo, e non ci permettono, quindi, di cogliere la vita nella sua azzurra luce. Mi giungono in mente gli idoli (dal greco eìdolon, simulacro) di cui parlava Francis Bacon, ovvero quei giudizi che “anticipano” le nostre esperienze, compromettendole già prima che inizino. Ciò che Bacon prospetta nei suo scritti è un’opera di liberazione totale da queste credenze, infatti in un passo del Nuovo Organo scrive: “[Gli idoli] vanno tutti rinnegati e rifiutati con decisione ferma e solenne, e l’intelletto ne deve essere completamente liberato e purificato, cosicché l’ingresso nel regno dell’uomo, fondato sulle scienze, non sia molto diverso dall’ingresso nel regno dei cieli, nel quale non è concesso di entrare se non si torna come bambini”
Il verso “ma perché non ti vuoi azzurra e lucente” mi rimanda invece al filosofo tedesco J. G. Fichte, iniziatore della corrente che prende il nome di Idealismo: egli, infatti, capovolge il vecchio adagio metafisico “l’operare segue l’essere” in “l’essere segue l’operare”. È una posizione, questa, a dir poco rivoluzionaria per i suoi tempi, ma altrettanto per i nostri, in quanto Fichte, in questo modo, sostiene che l’identità di un individuo non è data in modo fisso e precostituito, ma che ognuno di noi sceglie ciò che è.
Trovo questa idea molto potente: noi siamo il frutto delle nostre azioni, delle nostre scelte, infatti ritengo, personalmente, Fichte il filosofo della libertà per antonomasia. Spesso l’identità è un’ invenzione sociale (Pirandello docet), un altro modo per controllare e gestire i membri di una comunità, ma ognuno di noi sa, per esperienza diretta , che non può essere ridotto ad un’unica lettura identitaria, monolitica e tantomeno statica. La felicità, la gioia sono una scelta, siamo “azzurri e lucenti” se scegliamo di esserlo. A volte, infatti, abbiamo paura di mostrarci diversi da quello che gli altri ci impongono d’essere. Oltre i confini della paura, invece, e al di là di identità forzate e abitudinarie ci attende l’immensità, in cui non contano né tempo né spazio, dove “i sorrisi non hanno volto né un’età”, dove si dissolvono tutte le categorie ordinarie e comuni tanto funzionali quanto fuorvianti,dove le antiche gelosie e smanie di possesso cadono ed è possibile, così, respirare la fratellanza che unisce gli uomini, sentirsi un unico bosco dalle radici intrecciate, “planando su boschi di braccia tese”.
Ma per “respirare brezze che dilagano su terre senza limiti e confini” non è sufficiente abbandonare le abitudini, tanto sicure quanto tristi, serial killer di opportunità e slanci: è necessario, anche, “forare con un colpo di becco il pallone della tradizione”. E qui non può mancare il riferimento ad un altro grande pensatore tedesco, F. Nietzsche, il quale in Cosi parlò Zarathustra descrive la genesi e il senso del superuomo con il discorso “Delle tre metamorfosi”, in cui il primo passo da compiere è scrollarsi di dosso la zavorra della tradizione.
“Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone e infine il leone fanciullo.”
Il cammello rappresenta l’uomo che porta i pesi della tradizione, all’insegna del “tu devi” ; il leone rappresenta l’uomo che si libera dai fardelli metafisici ed etici all’insegna dell’ “io voglio” e il fanciullo rappresenta l’oltreuomo che, nella sua innocenza ludica, all’insegna dell’ ”io sono”, sa dire di si alla vita e inventare se stesso, come un vero “spirito libero”. In Sull’utilità e il danno della storia, Nietzsche si scaglia anche contro il passato che può indebolire, a suo dire, le potenzialità creatrici dell’uomo, perché il “fattore oblio” è indispensabile per il raggiungimento della felicità.
A rotolar giù non devono, però, essere solo la tradizione e il passato, ma anche un sasso residuo d’inferno. Il sasso è il simbolo della stasi e della fissità, è il materiale con cui si costruiscono muri, confini, limiti che ci proteggono ma, al tempo stesso, possono trasformarsi in soffocanti e deprimenti inferni, causandoci, così, grandi sofferenze e precludendoci, troppe volte, inebrianti voli vitali.
Il sasso, come dicevamo, è simbolo della materia la quale, come sostiene il filosofo francese H. Bergson, è “pura necessità”, è “movimento inverso” al “movimento della vita”. E infatti nella canzone di Mogol tutto ciò che è “peso” e oppressione rotola giù, mentre la vita, più leggera, autentica e libera, vola su: “più in alto e più in là ora figli dell’immensità”.
A malincuore mi fermo qui, tralasciando gli ulteriori collegamenti che potrei e vorrei tracciare, a dimostrazione di quanto la filosofia e la sua storia penetrino negli strati linguistici e, quindi, culturali e artistici del mondo con il quale si fondono e che modificano, nella radicale missione di conoscerlo.
Giulio Rapetti, in arte Mogol, non approverebbe. Lui parlerebbe di ispirazione poetica, e avrebbe ragione; ciononostante per me, piccolo insegnante di provincia, questo suo testo riesce bene a rendere, con parole immediate e semplici, concetti filosofici strutturati e, il più delle volte, complessi. Grazie ancora di cuore a Mogol, per il sostegno didattico ma soprattutto per averci invitato, come tanti illustri filosofi, a considerare la nostra vita come uno specchio: Lei ripete le nostre pose, le nostre smorfie.