Una linea, «La Linea»

Si può dedicare la didascalia a una ____________________ linea?

Non una linea politica. Né quella di un grafico pandemico. E neanche quella del linguaggio Morse, che scoprii, nel Manuale delle Giovani Marmotte, a pagina 20 (potete controllare). La linea di cui voglio parlare è quella che scoprii esattamente mezzo secolo fa, nel 1971.

Erano le 21.00 e, dopo aver cenato, mi posizionai sul divano due-posti in vilpelle, lato destro. Il sinistro, sacro e inviolabile, aveva la forma di mio padre, Pinuccio. I canali erano due ed erano molto rispettosi l’uno dell’altro. Se eri sul Primo Canale (si chiamava così), un triangolino bianco, in basso a destra, segnalava che stava iniziando una trasmissione sul Secondo Canale. E viceversa. Il telecomando non esisteva. Era inutile.

La tv era uno scatolone a valvole (un «Philips» da 28”) con 8 canali a sensore. Touch, si direbbe ora. In bianco e nero, naturalmente. E troneggiava nell’angolo opposto del divano, su una struttura legno e vetro, che acquistammo insieme al televisore. Aveva due ripiani: quello alto ospitava l’illustre elettrodomestico, quello basso, accoglieva uno stabilizzatore di una ventina di chili (almeno così sembrava), che andava acceso sempre per primo. La corrente era dispettosa e le valvole saltavano come fiocchi di popcorn. Bisognava stare attenti.

Per quel mostro sacro e costosissimo mia nonna aveva cucito un vestitino a forma di parallelepipedo, con la parte frontale che si sollevava come un sipario. Ricordo le ciliegine rosse del tessuto canarino, e una gondola che sormontava il tutto e impreziosiva esoticamente l’angolo della modernità.

Se la lavatrice, infatti, arrivata a casa mia nel 1970, assolveva un compito di affrancamento dalla fatica domestica, la Tv era il lusso puro, lo sfizio tecnologico. Lo spettacolo, lo sport, l’informazione, finalmente si consumavano all’interno delle mura casalinghe. E non al bar di Arturo, in piazza, pagando un paio di gassose.

In via Pimentel, dove abitavamo, il boom economico è arrivato con almeno quindici anni di ritardo. Quando altrove, invece, era già un nostalgico ricordo. Eravamo però felicissimi di quel botto ritardato.

Quel ragazzo, che in quell’anno aveva scoperto di avere una caverna in petto e un naso che non smetteva di crescere, dopo aver cenato, si sistemò sul divano due-posti in vilpelle, lato destro, puntuale alle 21.00 per vedere «Carosello».

E comparve per la prima volta la __________ della Lagostina, la storica marca di batterie, padelle e pentole a pressione. Sulla lavagna grigio-scuro del tubo catodico vidi una linea trasformarsi in sagoma. Una linea continua, dinamica e ininterrotta. Ipnotizzante. Una linea semplice e infinita che creava una storia, di cui protagonista era un personaggio burbero e litigioso, dal naso enorme (sembrava il mio). Parlava un linguaggio sconclusionato e incomprensibile, quasi un grammelot, con cui chiedeva aiuto per gli ostacoli che il suo disegnatore, un po’ stronzamente, gli poneva sul suo cammino da funambolo.

Ecco, con questa didascalia, voglio omaggiare Osvaldo Cavandoli (animatore, fumettista, illustratore), lo straordinario inventore della «Linea» che ha segnato la lavagna di «Carosello» col gesso della sua creatività. Quella linea geniale, figlia di una mano e di una matita, al servizio di un prodotto Made in Italy, percorse chilometri e chilometri, fermandosi, in Italia, solo con la morte di «Carosello», nel funesto 1977.

In seguito, matrigna Rai ostracizzò la «Linea», perché troppo riconducibile al prodotto che pubblicizzava. E il buon “Cava” dovette emigrare all’estero. La sua «Linea» divenne famosa in tutto il mondo, (ben 28 paesi la celebrarono) e non solo perché testimonial di un brand di padelle e pentole a pressione. Vinse tonnellate di premi. Furono realizzati fumetti, animazioni e film. E il talento di Osvaldo Cavandoli pienamente riconosciuto.

Mi fa piacere ricordarlo oggi, nel 2021, seduto sul divano di casa mia, mentre rivedo su «YouTube» la sua «Linea» brontolona. E sorrido, sorrido, esattamente come cinquant’anni fa. Perché penso che in un tratto di matita Osvaldo Cavandoli ha saputo racchiudere un mondo. Con ironia e intelligenza.

PUNTO.

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