Raccogliere la frutta non s’usa più

Un’immagine fondativa della tradizione cristiana è la raccolta della mela dall’albero della conoscenza, da cui come è noto deriva un cambiamento radicale della condizione umana, la quale d’emblèe transita dalla beatitudine alla vita grama (sebbene occasionalmente fantastica) che condurremmo ancora adesso. In questo scenario primigenio raccogliere la frutta, una mela, è dunque gesto rivoluzionario, che mette in discussione l’autorità e determina un drastico passaggio di stato.

In un tempo invece a noi prossimo raccogliere frutta da un albero è gesto alquanto anomalo, ormai quasi desueto e poco produttivo. Naturalmente non mi riferisco al gesto professionalizzato del raccoglitore a giornata nella campagna coltivata e strozzata dalla grande distribuzione. Mi riferisco piuttosto al gesto episodico del cittadino che ha la possibilità di ottenere un frutto commestibile con un semplice gesto meccanico invece che attraverso una transazione economica suggellata da uno scontrino fiscale.

Sul tema apro una parentesi biografica, terreno sul quale mi sento abbastanza preparato: mio suocero (che Iddio, Manitù o chi per lui l’abbia in gloria) ci ha lasciato un fulgido esempio di vita e un piccolo appezzamento di terra, con un po’ di ulivi e qualche albero da frutta. Tengo molto a quel pezzo di terra martoriato dal sole mediterraneo estivo e mi piace molto darmi arie da agricoltore facendo finta di dedicarmi a quelle piante. Peccato che io viva a centocinquanta chilometri di distanza, così finisco per andarci quando posso e, se non avessi un amico agricoltore per mestiere che si occupa delle cose serie (potatura, raccolta olive, trattamento contro la mosca, ecc) andrebbe tutto in malora.

In questo mio piccolo risibile regno talvolta capita che, nei momenti in cui qualche albero dispettoso decide all’improvviso di rendere disponibile la propria frutta, io sia da qualche altra parte e tutto rovina in terra, concime involontario. Più volte ho invitato gli amici che vivono nei dintorni a sentirsi liberi di andare nella nostra campagna e di raccogliere quel che c’è, perchè mi pare uno spreco che i gelsi o le ciliegie finiscano a marcire o diventino cibo per pappagalli (si, vicino la mia campagna vive una colonia di pappagalli, vorrei tanto farla vedere ai negazionisti del cambiamento climatico).

Comunque nessuno dei miei amici è mai andato a servirsi degli alberi pronti alla raccolta. Comprendiamoli: si tratterebbe di prendere l’automobile, percorrere 5 o 6 chilometri, sostenere la fatica di accostarsi all’albero e di sollevare le braccia per afferrare i frutti, uno ad uno, riporli in un contenitore e trasportarlo nell’automobile per poi rifare la strada al contrario, in tutto in condizioni avverse, poiché purtroppo, bizzarria della natura, spesso la frutta matura in estate, non a novembre, e quindi fa anche caldo. Tutta questa laboriosa operazione per ricavare magari 3 o 4 chili di frutta, dal valore commerciale stimabile in circa dieci euro, dopo averci dedicato un paio d’ore (per tacer della fatica). E’ dunque del tutto evidente che in una società utilitaristica è inconcepibile, in particolare per il ceto medio per cui 10 euro sono una soffiata di naso, prodursi in una attività senza senso economico come raccogliere frutta da un albero.

Forse infastidisce anche l’idea che sia l’albero a decidere quando la frutta è matura. Comportamento ingiustificato ed arrogante che costringe a cibarsi di albicocche per giorni e giorni, poiché 30 kg di albicocche non li puoi mangiare tutti in una volta. Si potrebbe porre il tema della condivisione, ma forse divagheremmo.

Mi sovviene in proposito un altro episodio (ve l’avevo detto che sull’autobiografia andavo forte): diversi anni fa, in un momento di presunta creatività condivisa con alcuni amici, realizzammo un documentario costruito sulle testimonianze di vita di persone particolarmente anziane (eufemismo politically correct per non dire “vecchie”) e ricordo in particolare di un signore di oltre 90 anni intervistato nel giardino della sua casa in campagna, prossima alla periferia della città.  Discutevamo di perdita della biodiversità , come spesso accade con gli ultra novantenni, e quel signore, riferendosi al terreno intorno a sé, ci raccontò: “Virqua,miofiglhachiantatlaurocerasa,lacerza,uncespuglcuifior,poiquannarrivalestatsimagnacazz,annagìausupermercat!” che dal lucano aulico può essere tradotto all’incirca nel seguente modo: “Orsù guardati intorno, qui un tempo mio figlio ha ritenuto di piantare il lauroceraso, le querce, simpatici e graziosi cespugli fioriti, tuttavia quando sopraggiunge l’estate ahimè non può godere di alcun frutto ed è costretto a rivolgersi al vicino supermercato.”

“Dic’ia:manunèmeglcachiantnanoce,nacirasa,nuper,accussìquannvenelastaggionetmagnalarobbatoia,ono?” ulteriormente quel signore ritenne di aggiungere questa chiosa, che tradotta dalla sua vulgata voleva dire: “Ma non era preferibile piantare alberi di noci, ciliegi o peri, così quando arriva la bella stagione puoi godere dei tuoi frutti?”. Ecco, anche al figlio del signore intervistato evidentemente non piaceva raccogliere la frutta.

Ma in fondo non piace più a nessuno: anche nelle città quei pochi alberi da frutta, stranamente sopravvissuti nelle aree verdi ed alla mercè dei passanti, un tempo spolpati dalla bramosia di mani occasionali, oggi illanguidiscono carichi, in attesa che la natura si organizzi da sé e produca la rovinosa caduta sul terreno.

Un po’ come con le macchina coperte di neve, che restano così, in attesa di scioglimento, quando invece un tempo erano spazzolate dai bambini impegnati in furibonde battaglie di palle di neve. Ma forse questa è un’altra storia. Forse non ci sono più bambini, tutto è cambiato, solo la frutta si ostina a presentarsi uguale ogni anno, così poco evoluta, ancora incapace di far tutto da sé e anacronisticamente bisognosa di qualcuno che la stacchi dal ramo e la riponga sulla tavola.

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