La globalizzazione negli anni Settanta non esisteva. Per noi. Eravamo ragazzi ed eravamo totalmente immersi nel liquido amniotico del nostro villaggio. Ogni tanto arrivava l’eco flebile di ciò che accadeva oltre gli Alburni, al di là di Eboli. Uno sbuffo senza sostanza. Eravamo troppo concentrati sul nostro ombelico. E non solo onanisticamente.
L’importante era scorrazzare, giocare con le fionde, arrampicarsi sugli alberi per sbirciare nei nidi, costruirsi una fionda, sfidarsi a carte sugli scalini di Barrella, rincorrere un Super Santos o giocare a bigliardino e carambola al Bar Sport di Antonio Bancone. Un’infanzia epica, quella dei calzoni corti. Memorabile.
Ma quell’anno. Il 1971. Quell’anno qualcosa di diverso accadde. Adesso, con il senno dell’oggi, potrei dire che la globalizzazione si era camuffata nelle “Clic Clac”. E non lo sapevamo. Un gioco semplice e poco costoso che divenne virale (adesso si può dire) in pochissimo tempo. Con una velocità che ci sorprese.
La modernità (il termine ha in pancia il concetto di “moda”) giunse nella lucana Spinoso, sotto forma di due palle, di plastica dura, tenute insieme da una cordicella, che nella parte mediana aveva una linguetta (o un anello), anch’essa di plastica, per l’impugnatura. L’isteria fu locale e globale. La percepimmo bestialmente, come sensazione selvaggia. E la cosa ci piacque. Ma ci distrusse i polsi e il nervo ulnare.
Il frenetico movimento sussultorio del braccio, che serviva a dare velocità per far oscillare e colpire le due palline, sia in basso che in alto, e tenerle in asse, per più tempo possibile, era difficilissimo.
Soprattutto dolorosissimo. La meccanica orbitale era imperfetta e l’errore inevitabile. Più aumentava il ritmo, più la forza d’impatto sulle ossa della mano e del polso era dirompente. Il dolore era lancinante perché le palline colpivano sempre gli stessi punti. Lividi, contusioni, lesioni (anche qualche frattura) facevano parte di questo gioco masochistico, a cui non ci sottraemmo. Quasi un rito tribale di iniziazione.
Ne discussero preti, medici, pedagoghi, psicologi, sulle riviste e sul Primo Canale. Tutti invocarono provvedimenti contro questo prodotto maligno della società del benessere.
Noi non ci interrogammo sugli effetti perversi del consumismo mondiale. Molti Stati, in Europa e in America, dopo un po’ lo vietarono, in Italia no. Allora corremmo ai ripari costruendoci polsini e polsiere artigianali, con cartoni, camere d’aria di biciclette, imbottiture di cenci ecc.
Nella penisola le Clic clac furono prodotto e commercializzate grazie all’intuizione dell’industriale Clemente Martinelli, un fabbricante di oggetti in plastica, le cui officine erano a Robbio Lomellina, in provincia di Pavia.
Un amico, che era appena tornato dagli States, aveva portato con sé il nuovo gioco, la cui moda era appena scoppiata oltreoceano. Martinelli realizzò in fretta uno stampo e produsse 2.000 esemplari, che andarono letteralmente a ruba, in meno di 24 ore.
Iniziò a produrne 90.000 pezzi al giorno, coinvolgendo 70 dipendenti e utilizzando 350 famiglie del paese per assemblare e confezionare a domicilio il giocattolo. In tre mesi ne “sfornò” 4 milioni di pezzi sia per il mercato italiano, che per quello europeo.
In ogni paese, in ogni città, per mesi e mesi risuonò quell’assordante fragore (clic clac appunto). Tambureggiante e fastidiosissimo. Una sorta di richiamo della foresta. Odiatissimo dagli adulti e dalle istituzioni, divenne per i più giovani anche strumento di trasgressione generazionale. E se nelle città fioccarono le denunce per disturbo alla quiete pubblica, in alcune località turistiche come Trieste e Ischia vennero bandite con ordinanze comunali.
Da noi, indigeni di paese, se giocavamo nella canicola del pomeriggio, alla controra, il rischio consisteva in un anatema o in una secchiata d’acqua. Se andava bene. Se andava male la risciacquatura dei piatti. O il pastone del maiale.
Il giocattolo maledetto dopo la gloria (vi fu anche un campionato internazionale, di cui parlò il New York Times con un lungo e dettagliato articolo), finì dopo un anno nella polvere o sui tetti. Sopravvisse nei mercatini e nelle fiere patronali.
Ritornò però in voga e ridivenne di nuovo “virale”, una fiammata, nell’estate del 1979.
Le ultime notizie riguardanti una loro diffusione di massa, risalgono al 2017, e provengono dall’Egitto. Diventate virali nel paese delle Piramidi vennero subito vietate. Ma non per la loro pericolosità o per la loro rumorosità. Si sa, quando la storia si ripete, si scade sempre nella farsa o nella tragedia (concetto reversibile). Le clic clac erano divenute strumento di provocazione politica, di ribellione al sistema.
Non potendo urlare il proprio dissenso, gli oppositori del regime avevano ribattezzato il gioco “Le palle di Sisi”,con chiaro riferimento ai testicoli del Presidente egiziano.
Poiché per fare una rivoluzione, si sa, ci vogliono le palle, e dal rumore mitragliante che si sentiva nelle medine del paese, di clic clac ne roteavano molte, temendo forse anche per le proprie, il presidente, non si sa mai, è intervenuto tempestivamente per mutilare-evirare la rivoluzione in nuce. Anche a costo di esibire uno scarso sense of humor.
Sic transit “globalizzazione” mundi.