La Lettera 22 dell’Olivetti, le autopsie di Vittorio Marchis e il poster di Savignac

Didascalia n. 17

Ce l’ho. La Lettera 22 dell’Olivetti. In un piccolo scomparto del tavolino centrale tra i due divani. A casa mia. Non è ben visibile. Ma c’è. Anche se come tutte le cose sempre presenti, un po’ alla volta, è diventata invisibile. Ed è più facile che venga notata da un amico attento che mi viene a trovare, che non dalle mie figlie, che l’hanno sempre sotto gli occhi. Derubricata come oggetto meccanico del passato. Soprammobile. Loro che sono giustamente proiettate verso un futuro metadigitale.

Sanno che è una vecchia macchina per scrivere, un pezzo del modesto museo famigliare. D’altronde si invecchia, si diventa un po’ sentimentali e patetici, ci si aggrappa ai ricordi e bla bla bla.

Tempo fa raccontai loro, sbigottite, che invitai a Montemurro un caro amico, Vittorio Marchis, docente di storia della tecnologia al Politecnico di Torino, per fare un’autopsia di una macchina per scrivere, una Lettera 22 dell’Olivetti, appunto. Sì, una autopsia. Lui ne faceva in giro per il Mondo: lavatrici, frigoriferi, macchine da caffè, giradischi, fisarmoniche, biciclette ecc.

Vittorio indossò il camice bianco, non ricordo se aveva con sé uno stetoscopio, e pian pianino, da bravo anatomopatologo la smontò, cavandone fuori centinaia di pezzi, tasti, molle, un campanello, rulli, vite e staffe, leve e martelletti. Fu una lectio magistralis, originalissima, condita di spiegazioni storiche e tecniche, di brevetti, di aneddoti. Forse ritornammo tutti un po’ bambini, per quel fascino regressivo di smontare, di rompere, di vedere quello che c’è dentro. Ognuno dei presenti, alla fine, portò con sé un piccolo trofeo (io il campanellino).

La Lettera 22, lo dico alle figlie e ai restanti 23 lettori, è nella storia della scrittura del Novecento, e non solo. È un’icona del design. Fusione nucleare fra arte e industria. Di bellezza e utilità. Costruita ad Agliè (Torino) nel 1950, divenne in breve la macchina da scrivere portatile per eccellenza in tutto il mondo, sostituendo l’Mp1 (sempre dell’Olivetti).

Progettata da Giovanni Beccio, fu disegnata dall’architetto e designer, Marcello Nizzoli. Un vero artista. Le linee morbide, senza spigoli, la facilità di accesso al suo interno, la leggerezza dell’alluminio, la compattezza e l’affidabilità, la resero ambasciatrice di una civiltà che aveva nell’emoglobina i geni leonardeschi.  Erano i famigerati anni del Boom economico e l’Italia ruggiva col suo Made in Italy.

Quei tre chili e settecento grammi, senza rinunciare alla robustezza, per i canoni del tempo, erano una vera rivoluzione, se paragonati agli oltre cinque chilogrammi del modello precedente.

Al suo esordio costava 38.000 lire, quasi quanto uno stipendio di un operaio. E gran parte del successo fu determinato anche dalla immaginifica abilità degli straordinari maestri della comunicazione e della grafica che vennero coinvolti per la promozione: dallo stesso Nizzoli a Giovanni Pintori, a Savignac, di cui potete ammirare il manifesto del 1953. Bello ed efficace. Senza ghirigori.

Su un rassicurante fondo verde, una scavata e sorridente sagoma femminile, con un buffo cappellino con due penne, solleva senza sforzo alcuno la Lettera 22, mentre nell’altra mano regge un’elegante custodia, quasi una borsa à la page. L’abito, arabescato di lettere e numeri, è bicolore. Sembra suggerire che siamo contenitori di parole che si agitano come molecole per uscire, per comunicare, grazie alla moderna scrittura meccanica e al suo nastrino di stoffa in bobina. Imbevuto di rosso e blu.

Sul poster nessuno slogan. Anzi réclame, come si diceva una volta. Solo marchio e modello. Bastava.

La Lettera 22, nel 1954, vinse il Compasso d’Oro, il massimo riconoscimento mondiale per l’Industrial Design e nel 1959  l’Illinois Technology Institute la incoronò come il miglior prodotto in termini di design degli ultimi 100 anni. Ancora adesso fa parte delle collezioni permanenti del Moma di New York.

Ma anche della più modesta collezione di casa mia, in quel di Spinoso.

Sto pensando di cambiare posto alla mia Lettera 22. Di sollevarla dal cantuccio che condivide con le riviste, un centrino e un posacenere. Di darle un po’ più di visibilità.

Che ne dite figlie?

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