I falsi amici

Il mio ultimo articolo su Totem ha generato una risposta e una curiosità inattese. Questo mi fa piacere perché il dialogo è un buon modo per vederci chiaro nelle cose: il confronto fa sempre bene. A riprova del fatto che di apolitico non esiste niente c’è la riflessione della mia collega turca che mi dice: “ho letto il tuo articolo, bello ma ho un appunto. Ataturk non è greco, sì è di Salonicco, dice, ma è turco”. Io, da parte mia, naturalmente so bene che l’Impero arrivava fino alle porte di Vienna, tuttavia la mia affermazione alla mia collega turca sembra proprio un’affermazione eurocentrica.  Benissimo, ne abbiamo parlato.

“Lo chiamano greco da quelle parti (cioè dalle mie) come se solo un europeo avrebbe potuto pianificare e realizzare un progetto tanto ambizioso come la Repubblica”.

È la solita vecchia storia: sotto ogni parola c’è una strutturata geometria di idee, ecco tutto. Tutti noi siamo pieni di pacchetti concettuali cotti e inghiottiti.

A tal proposito anche il termine laicizzazione, riferito alla politica di Ataturk, è un falso amico, perché induce a pensare alla libertà di espressione e si sa la libertà è un concetto nobile. Tuttavia, quando essa fu applicata alla vita delle persone si tradusse in imperativi: “se volete studiare scopritevi il capo, se volete lavorare sbarbatevi”.

La barba però non è forse un tratto identitario?

Nel 2009 mostrai una foto della mia famiglia ai miei amici turchi.

– Mio padre è insegnante, mia mamma è casalinga.

– Tuo padre è in pensione?

– No, perché?

– Ma come, va a scuola con la barba?!

Una volta, prima di partire per il mare, mio padre tagliò la barba. Mia madre non lo riconobbe e non gli aprì la porta di casa.

Accidenti: all’epoca erano già sposati da sedici anni, ma lei insisteva: “non è lui ti dico!” Senza la barba quel signore davanti la nostra porta non era più mio padre!

Se la barba è un tratto identitario (e lo è) lo è anche coprirsi il capo.

Nel campus universitario di Sivas, nel 2010, conobbi Sevda. Chioma fluente, rossa. La sera uscimmo e aveva il velo. Ma come, perché? Ma è la stessa Sevda di stamattina? Sì.

“Fuori faccio cosa voglio, quindi mi velo ma al campus non posso entrare se non mi scopro. È la legge”. Oggi Sevda è una chimica, lavora in un laboratorio ospedaliero, porta il velo. Sembra strano sentire queste cose ma esistono, accadono. Sono le idee applicate alla vita, non tutte le idee buone danno buoni frutti. C’è uno scarto di incredulità che ci lascia boccheggianti.

Quando volevo trasferirmi in Turchia il mio attuale compagno (turco) non mi voleva. Aveva paura per me. Era rimasto impressionato dall’assassinio di un’italiana, avvenuto nel 2008 a una manciata di chilometri da casa sua. Non so quanti di voi ricordano questa vicenda. L’idea di Giuseppina Pasqualino era di viaggiare vestita da sposa in autostop lungo un itinerario che includeva anche la Turchia per recare un messaggio di pace nei paesi interessati da guerre recenti. Questa artista milanese fu violentata e uccisa da un camionista a Gebze nella provincia di Kocaeli, proprio fuori Istanbul, ad est. Ho ragionato molto su questo orribile crimine e ho capito che nessuna persona sana di mente, in Turchia, avrebbe mai dato un passaggio a questa ragazza. Una sposa per strada a piedi è un’idea inconcepibile, il cervello di un turco non la riesce proprio ad elaborare a meno che l’iniziativa non rientri in un evento pubblicizzato. Per la gente comune è più facile pensare che una sposa in autostop sia un’esca e che alle sue spalle compaiano dei predoni pronti a rapinare e Dio sa cosa gli ignari e generosi automobilisti. È altresì probabile che si tratti di una donna in fuga e che dietro di lei ci siano famiglie pronte ad arrivare ai ferri corti con chiunque si intrometta. È difficile quindi per una persona che ha qualcosa da perdere trovare il coraggio di dare un passaggio a una sposa. Un uomo per bene non si fermerebbe sul ciglio della strada a raccoglierla perché si sentirebbe un maniaco.

Conosco Gebze, una delle prime realtà che ho conosciuto in Turchia, per certi versi è un posto ostile, con un coprifuoco serale assai rigido; una cittadina piena di Apaçi, malavitosi a bordo di auto scassate e modificate. Ovviamente ci vive anche gente che conduce una vita semplice tra la casa e il lavoro con lo svago di un paio di caffetterie carine. Non c’è una libreria degna di nota se si esclude quella dentro il centro commerciale, non c’è una biblioteca, non c’è un centro culturale e, esclusi alcuni corsi di decoupage, cucito e confezionamento di bigiotteria organizzati dal comune, non ci sono eventi degni di nota.

Quando ci approcciamo alla Turchia tutta, non a Istanbul che è una megalopoli, a volte incontriamo ostacoli culturali così grandi da scoraggiare interpretazioni più approfondite e a noi tutti conviene riassumere il nostro sbigottimento trincerandoci dietro giudizi semplici: da quelle parti sono ignoranti. Eppure, non è vero, non è questa la verità.

E a me, anche se sono una da “parliamone”, non resta che prendere atto del fatto che davvero il dialogo non può tutto, ci sono cose che saltando da una cultura all’altra non sono dialogabili, diventano pacchetti di idee e fatti culturali spesso scorretti e pregiudiziali.

Ecco perché più si parla di qualcosa più la si smonta più la si capisce, come per quel “greco” e quel “turco” accostate al nome di Ataturk.

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