Piccola cronaca sanitaria

La Basilicata ha il più alto tasso di migrazione ospedaliera verso regioni diverse da quella di residenza per ricoveri ordinari, il 24% del totale, praticamente quasi un paziente su quattro si ricovera altrove, peggio di noi fa solo il Molise. Lo dice l’ISTAT, con riferimento all’annualità 2019. Perché questo accada non lo saprei spiegare per bene, tuttavia non fatico a crederci, anche alla luce di una recentissima esperienza maturata all’ospedale San Carlo di Potenza. Premetto che nutro per questo nosocomio lo stesso sentimento che si può provare per una zia acida e un po’ stronza che tuttavia ti vuole bene ed è capace di improvvisi slanci di generosità. Al suo interno ritengo sussista una risibile quota di fancazzisti, fisiologica in tutte le organizzazioni larghe e complesse, compensata tuttavia da una moltitudine di lavoratori, personale sia medico che ausiliario, che tante volte ha contribuito ad assicurare cure a me e ai componenti della mia famiglia. Messe le cose in chiaro con il San Carlo, dunque nulla di personale, vengo all’aneddoto: mia moglie fa dei controlli periodici per via una familiarità ereditaria verso una patologia che qualche anno fa si è portato via mio suocero. Ne consegue che ogni tanto vada dal medico a farsi prescrivere il controllo. Così ha fatto anche questa volta. Il medico, manco fosse lo smemorato di Collegno, le ha prescritto una visita di primo accesso,  anche se sarebbe l’ennesimo controllo periodico. Forse mia moglie sarebbe anche esente per patologia, ma adesso che facciamo, ci mettiamo a fare sofismi? Già è un buon risultato essere riusciti a ricevere, in tempi di pandemia, una prescrizione attraverso la segretaria del medico. Come dicono quelli della Crusca, ci è andata di gran culo. E non avete ancora sentito nulla: la prenotazione più prossima, acquisita attraverso il CUP (Centro Unico di Prenotazione)  sarebbe tra otto-nove mesi, nel primo posto disponibile, San Carlo per l’appunto. Ovviamente c’è una alternativa: visita privata, circa 270 euro, ma è un controllo periodico, non urgente, si può attendere, più per principio che per risparmio. Ma evidentemente il dio dei supporters della sanità pubblica forse si accorge di noi, magari aiutato dalla quarta ondata di covid, e così è arrivata una telefonata, una manciata di gironi fa: “Signora si è creato un buco, non è che vuole venire?”. Mia moglie accetta. Ci sarebbe una preparazione all’esame. Che non viene comunicata, ma mia moglie ormai la conosce per esperienza.

Arriva il giorno indicato. Al fine di evitare di perdere tempo con la fila alle casse ed anche a titolo di contributo alla riduzione degli assembramenti la consorte paga il ticket previsto on line. Nel farlo forse si sarà anche sentita ordinariamente contemporanea. Tuttavia all’accettazione in ambulatorio le dicono con tono di lesa maestà: “Ma signora che ha fatto? Ha già pagato? Non doveva! Prima si fa l’esame, si vede come va, poi si paga!”.

Dove sarà scritto che si paga solo dopo, in base alle modalità di esecuzione dell’esame? Secondo quale tradizione orale tramandata in generazione in generazione si deve omettere il pagamento anticipato? Comunque è prima mattina, le forze facilitano ipotesi solutive: all’occorrenza dopo l’esame, si potrà procedere per il pagamento di una eventuale integrazione. “Comunque signora lei è la prima.” L’appuntamento è alle ore 9.00, diligentemente mia moglie arriva 5 minuti prima. E’ la prima dei prenotati ma quando arriva nell’ambulatorio ci sono già altre persone e infatti a mia moglie viene dato il numero 6. La prima riceve il numero sei, qualcosa mi sfugge. Ora qualcuno che avrà studiato ingegneria gestionale e successivamente ottenuto una specializzazione in interpretazioni aruspicine delle organizzazioni sanitarie forse potrà spiegarmi per qualche fosca ragione se mi avete prenotato allora X e io mi presento puntuale, anzi pure con 5 minuti di anticipo e mi dite anche che il mio nome è il primo della lista e poi esce dal cilindro uno che è prenotato all’ora “X+n” ma si si è presentato, sua sponte, prima di me, perché questo mentecatto deve essere visitato prima? Anche qui ci deve essere una norma collettiva che applicata suona può meno così: tu puoi avere anche appuntamento alle ore 9.00 e arrivare puntuale, ma è a tuo rischio e pericolo, perchè se trovi uno che ha appuntamento alle ore 11.00 ma se ne fotte di questi inutili formalisti della civile convivenza e si presenta alle 8.45 questo verrà servito prima di te. E’ chiaro, lo sanno tutti, è la regola consuetudinaria  del “freca-compagno”: se ho appuntamento alle 9.00 si deve andare alle 8.30, solo così posso fottere quello delle 8.45. Portata all’estremo legittima il montaggio di una tenda canadese all’ingresso la sera prima.

E’ questo è il primo step. Il secondo riguarda il dottore. Che alle ore 9.00 non c’è. Ora non è che uno voglia sapere dove è e che cosa fa. C’è pure la privacy. Probabilmente avrà 4000 motivi per giustificare di essere altrove. Magari in base al suo contratto, e conseguente regolazione del rapporto di lavoro, potrebbe anche non essere tenuto alla presenza lì, esattamente alle ore 9.00. Benissimo, però mi chiedo: perché il suo datore di lavoro, l’azienda sanitaria ospedaliera, mi ha prenotato una prestazione alle 9.00 se poi deve arrivare magari alle 9.30? Circostanza che, unitamente agli stronzi che si sono presentati abusivamente in anticipo, determina il fatto che l’appuntamento delle 9.00 si trasformi in un accesso reale al servizio che sono ormai passate le ore 11.00. Ma ci si arma di pazienza e si attende. Poi  infine il controllo medico viene eseguito, ma la prestazione risulta leggermente diversa da quella già oggetto di pagamento, bisogna fare un esame ulteriore. Ok, abbiamo già pattuito la procedura in fase di accettazione, così mentre mia moglie è ancora in ambulatorio mi viene consegnata una documentazione aggiuntiva e vengo invitato a recarmi alle casse per corrispondere l’integrazione. Mi presento e risento un refrain: “Ma come, ha già pagato? Si è sbagliato. Non doveva!”

“Ah sì, e dove sta scritto che non dovevo?”

“Eh, si fa così con questo esame.” La tradizione orale appare sempre più radicata. Non insisto.

“Va bè, ho pagato come in genere si fa quanto è previsto un ticket. Adesso sono qui per l’integrazione.”

“Non è possibile. Deve pagare di nuovo tutto e poi chiedere il rimborso del precedente versamento.”

Io li capisco quelli che hanno pochi strumenti di lettura e preferiscono la mazza ferrata. Non condivido il metodo, ma mi è chiaro l’innesco. Poiché mamma e papà mi hanno consentito un’istruzione mi limito a pensare che sto vivendo il tipico caso della procedura che prevarica il cittadino. Provo a reagire, perché voglio dare anche io il mio contributo a rendere il mondo un posto più vivibile, così tento di far valere le mie ragioni, con tutto il garbo che mi è rimasto dopo 3 ore di attesa, argomentando verso la signora allo sportello. La quale allora chiama i rinforzi: adesso sono in due che mi confermano che non è possibile, ed io sono stanco e mi sembrano anche gentili mentre mi forniscono tutti gli estremi per chiedere il rimborso e mi scrivono tutto per bene, a penna, su un foglio.. Non vado oltre, capisco che anche loro sono vittime della procedura e probabilmente non possono permettersi di sovvertirla, vivono e si guadagnano il pane al suo interno, mi resta solo l’amaro rammarico per quelle persone che, diversamente da me, non possono permettersi di pagare due volte la prestazione e non sanno nemmeno che cappero sia una “PEC di richiesta di rimborso”.

Torno all’ambulatorio, ricevo spiegazioni doviziose per il ritiro dell’esito dell’analisi aggiuntiva, consegno l’attestazione dell’avvenuto pagamento e negozio il rilascio di mia moglie con tanto di referto dell’esame appena fatto. Fortunatamente tutto sembra piò o meno  a posto, la patologia continua a non interagire con le nostre vite.

Tornando all’incipit, ecco tutto questo non pretende di spiegare perché vi sia una elevata emigrazione sanitaria nella nostra regione. Presumibilmente essa è frutto di numerosi fattori complessi che tuttavia in parte sono probabilmente correlabili anche ai fattori organizzativi che emergono in questa come in altre piccole esperienze di fruizione dei servizi sanitari. Fattori organizzativi (o disorganizzativi) che finiscono con l’incidere sul livello di soddisfazione della prestazione sanitaria ricevuta, la quale, a ben vedere, da un punto di vista strettamente sanitario e della sua efficacia, non è poi diversa da quella che avremmo ottenuto altrove.

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