RESISTENZA

Ilvocabolario Treccani recita:

resistènza s. f. [dal lat. tardo resistentia, der. di resistere «resistere»; il sign. 3 è un calco del fr. résistance]. – 1. L’azione e il fatto di resistere, il modo e i mezzi stessi con cui si attuano.

Alla parola origine cui rimanda, spiega:

resìstere v. intr. [dal lat. resistĕre, comp. di re- e sistĕre «fermare, fermarsi»] (aus. avere). – 1. Opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti.

Viviamo in un mondo complesso, che ci condiziona, ci comprime, talvolta ci esalta, talvolta ci frustra, in una rete articolata di relazioni a partire da quelle interpersonali fino a quelle di comunità che esercitano costantemente un’azione sul nostro io, sul nostro essere, sulla nostra capacità/determinazione a realizzarci come individui seguendo le nostre aspirazioni e i nostri desideri.

L’uomo è naturalmente un resistente.

Ovviamente non parlo delle azioni legate alla sopravvivenza base, al coprirsi quando fa freddo, al mangiare quando si ha fame e così via di seguito riferendomi alle pulsioni elementari che condividiamo con tutto il mondo organico, vegetale o animale che sia.

Parlo specificamente della resistenza che ciascuno di noi mette in campo ogni giorno per determinare la realizzazione dei suoi desideri.

La resistenza ci fa uomini o ci costringe a vivere in balia degli altri, o meglio, in balia delle altrui resistenze alle azioni che poniamo in essere o vorremmo porre in essere seguendo il desiderio di autoaffermazione.

In una specie gregaria come la nostra, evolutasi per vivere in comunità, inevitabilmente la vita collettiva si alimenta del contrasto tra le mutue resistenze e procede per reciproche concessioni, per reciproci patti di desistenza.

La libertà è un concetto astratto che, nel caso dell’uomo, è quasi mai pienamente attuato essendo ciascuno di noi, normalmente, legato all’insieme di regole e di freni che si realizzano nel contrasto delle reciproche resistenze.

Pensateci un attimo.

L’uomo è un animale autocosciente quindi, qualsiasi azione egli riesce a concepire è possibile. Ogni agito è perché una mente umana può concepirlo.

I concetti di bene e di male sono assai meno universali di quanto ciascuno di noi pensi.

L’uomo non si ciba di carne umana.

Proviamo a pensare a questo vero e proprio tabù ancestrale con mente analitica. L’uomo è un mammifero, la struttura dei suoi tessuti muscolari e simile a quello di un bue, di un maiale, di un cavallo, ugualmente le sue carni contengono proteine, sostanze grasse, nutrienti.

Eppure, per larghissima parte della comunità umana, questo è un vero e proprio tabù e anche in quelle pochissime culture ancestrali in cui l’antropofagia è ammessa essa lo è sempre con un contenuto che più che alimentare è magico-rituale.

Il bene.

Eliminiamo subito da questa categoria tutte le azioni che, genericamente vengono indicate buone che prevedono l’aiuto o l’assistenza ad un altro essere umano. In una specie evolutasi con uno schema gregario è abbastanza semplice capire che l’aiuto ad un individuo della nostra specie può essere considerato, in termini evolutivi, un atto di egoismo volto a mantenere la forza della comunità.

Il male.

Anche qui eliminiamo subito le azioni genericamente indicate come male: rubare, imbrogliare, mentire, addirittura uccidere possono avere un antefatto spiegabile che ne motiva l’azione.

Per quanto apparentemente incomprensibile l’omicidio può avere a monte delle motivazioni fortissime, l’atto di infrangere uno dei tabù per eccellenza della specie umana, non avviene senza una fortissima motivazione emotiva.

Il male vero è una perversione degli istinti di protezione della società collettiva che avviene senza una reale motivazione emotiva e senza un vero vantaggio collettivo, il male è la disumanizzazione dell’uomo e la sua trasformazione ad esecutore anaffettivo di un ordine o di un capriccio momentaneo.

Nella storia gli esempi di male più evidente che mi vengono in mente sono la mostruosa macchina romana dei giochi gladiatori e delle manifestazioni dei circhi con la macellazione di uomini e di animali per soli fini ludici e, ovviamente, la orribile industria della morte costruita dai nazifascisti per alimentare la “soluzione finale”.  

Quindi come vedete, tolte le categorie ancestrali, etologiche, di bene e di male resta poco e quel poco è strettamente correlato all’insieme delle culture tradizionali che si sono stratificate nelle diverse comunità umane.

L’atto di resistere quindi, oltre ad essere connaturato alla specifica caratteristica dell’autocoscienza analitica propria della nostra specie, è frutto della sommatoria delle reazioni collettive davanti ad eventi che mettono alla prova la comunità.

La mobilitazione degli Italiani dopo Caporetto, l’ondata di solidarietà dopo il terremoto del 1980, la risposta all’arrivo dei primi profughi albanesi a Bari, la reazione motiva lucana davanti all’ipotesi di collocazione del deposito unico dei rifiuti radioattivi, l’onda di dolore/passione dei potentini alla scoperta del cadavere di Elisa, la reazione del bambino davanti al bulletto che picchia un suo amichetto.

Ho volutamente percorso i miei esempi per cerchi concentrici che dal collettivo allargato si è via via ristretto verso l’individuale, ciascuna di queste reazioni è resistenza.

La resistenza rispetto al campo sociale umano può essere considerata la reazione di una società umana davanti ad un evento capace di annullarla/modificarla in maniera permanente in toto o in parte.

La resistenza è un atto legittimo di sopravvivenza sempre.

Ci si potrebbe interrogare sulla liceità degli strumenti usati per resistere ma questo è tutt’altro ragionamento per il quale la risposta non può essere univoca essendo strettamente di natura culturale e, quindi, differenziata così come lo sono le culture umane.

Ma di questo proverò a parlarvi un’altra volta.

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