Caro Beniamino Placido ti scrivo(oggi, in ritardo di 30 anni)

Didascalia n. 42

Spinoso, 9 settembre 1992

Caro dott. Placido, stimato conterraneo, lei certamente ricorda i tempi in cui in Lucania (ma non solo) le mosche si lasciavano penzolare dal soffitto, senza imbarazzo alcuno, fra i trofei rosati di salsiccie e sopressate.

Alla lampada che cadeva a picco sulla coppa dei maccheroni, si usava legare, soprattutto nei borghi di provincia, un piccolo cilindro color rosso. Il contenuto, una pellicola adesiva, si srotolava telescopicamente. Dondolava quella strana spada di Damocle sulla testa di famelici commensali che in patriarcale silenzio si alternavano a fiocinare, con rapidità e perizia, i raškatieddë al sugo nel coppone posto al centro del tavolo. Un vibrar frenetico di alucce accompagnava indifferentemente il rito della pappagorgia: era il frullo disperato delle mosche che ignare dell’inganno restavano mortalmente invischiate nella carta moschicida. Un vero e proprio cimitero perpendicolare. Le disinfestazioni annuali di vicoli, stalle, e case non bastavano evidentemente ad aver ragione di questi impertinenti insetti. Qualche casa popolare (ad Armento, ad esempio, dai miei nonni) ancora reca graffiti del tipo: D.D.T. 1956, D.D.T. 1959.

Questa “memoria” mi sovveniva infatti mentre leggevo il suo articolo intitolato L’allegro rumore di mosche volgari, pubblicato sabato scorso, 5 Settembre 1992, su «La Repubblica», nella sua splendida rubrica “A parer mio”.  In quell’occasione argutamente scagliava uno strale contro Angelo Guglielmi, direttore della Terza Rete, che amerebbe trattenere a sé (come la carta moschicida?) mosche ronzanti e fastidiose quali Gianfranco Funari o Maurizio Mosca, perché “fanno fragore e attirano il telespettatore. Lo incuriosiscono. Lo tengono allegro”.

Quindi  scovava l’ideale di Guglielmi in una poesia di Antonio Machado dedicata alle mosche: “Voi, così familiari / inevitabili e golose / voi, mosche volgari / mi evocate tutte le cose”.

L’unica poesia in onore delle mosche che lei dott. Placido confessava di conoscere.

Ma sbagliava. Ne sono convinto. Conosceva, e conosce, un’altra poesia dedicata alle mosche,  perché ha letto, non ho dubbi,  la raccolta Vidi le Muse di Leonardo Sinisgalli, poeta spero anche a lei caro, e la superba “Poesia per una mosca”, che le rammento, sperando di far cosa gradita:

Della tua ala laboriosa

Si consolano i vespri delusi

Se pure senza pudore tu abusi

Dell’innocenza d’una rosa.

Nel tuo tremore si riposa

La mia noia; fiduciosa

Ronza attorno a un’immagine chiusa.

La pazienza è forse rischiosa

Ché talvolta si spegne un fiore

Nella notte e il fradicio odore

Ti eccita curiosa.

Ma susciti dentro la stanza

L’aria di tanta vacanza

Amica pungente e pia.

Così cara è la tua molestia

Che stasera con me ti fa festa

La mia efimera poesia.

Le è sicuramente familiare, dott. Placido, il ricordo e il ronzare delle mosche lucane,  ma ha dimenticato, ahimé, la mosca di Sinisgalli. Come chi, seduto al tavolaccio, tanti anni fa, trepidando in attesa di vibrar la forcina tra i raškatieddë, dimenticava la molestia di una mosca intenta a vendicar la sorte delle sorelle appese sopra la testa. Càpita.

La saluto cordialmente

                                                     suo aff.mo lettore

                                                          Biagio Russo

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