Cinema Garibaldi

ovvero il mio Nuovo Cinema Paradiso

Didascalia n. 44

Il Nuovo Cinema Paradiso, per me, ragazzino dai pantaloncini corti e dalle calze di Filo di Scozia traforato, con elastici emostatici sotto la rotula, è stato il Cinema “Garibaldi” di Spinoso.

Alla fine degli Sessanta credo di aver versato le prime monete nel borsellino di Vincenzina Petrocelli, proprietaria della sala, che statuaria appariva dal botteghino che affacciava sul vestibolo, prima del tendone di panno scarlatto che separava l’ingresso dalla platea. Era una figura molto familiare per me, essendo la nonna del mio migliore amico, Tonino De Stefano e amica della mia. Per rispetto la chiamavo zi’ Vicinzìna.

Spinoso tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi anni Sessanta, grazie alla costruzione della Diga del Pertusillo (1957-1963), si era gonfiato demograficamente, accogliendo, insieme ad altri paesi limitrofi, migliaia di maestranze che vi lavoravano. Fu un periodo di esaltante vivacità per il piccolo paese, i cui abitanti si ingegnarono per cogliere quell’occasione che risarciva di un amaro e mutilante esproprio ad opera dell’Ente Irrigazione. Per quattro tornesi, i floridi orti e i frutteti che si specchiavano nell’Agri furono sepolti da una lapide d’acqua.

Cantine, pensioni, attività commerciali e artigiane, bar, furono ossigenati dai salari certi degli operai. Giunsero motociclette e automobili sulle strade non più polverose, perché la lingua di bitume le aveva trasformate in Via Novë, neologismo dialettale coniato per distinguerle da quelle vecchie, brecciose o sterrate.

Un assaggio di euforica modernità, con le mode, gli abiti e gli oggetti del boom economico, ci piovve come manna dal cielo, anticipando la risacca consumistica che piano piano raggiunse anche le altre aree della regione.

Ma il Cinema Garibaldi, a gestione famigliare, era nato prima di quell’Eldorado, in anticipo rispetto agli anni più intensi. Forse fu un investimento fiutato in prospettiva da una donna forte, una matriarca, vedova due volte, che assurse a protagonista di un’iniziativa al femminile non certo comune per quel tempo: realizzare un cinematografo a Spinoso.

L’adesione all’Agis del Cinema Garibaldi di Spinoso, risale al 30 maggio del 1955. A nome di Vincenzina Petrocelli, originaria di Moliterno (per tutti ’a Mulëtërnèsë), ma trasferitasi a Spinoso nel 1938, fu versato un deposito di 10.000 lire.

Fondamentale fu l’iniziativa del figlio, maestro elementare, Pasquale Solimando (Pasqualottë, per mio padre e gli amici) che viveva a Napoli. A metà degli anni Cinquanta sistemarono la sala (75 mq), acquistarono l’attrezzatura (un proiettore Microtecnica Torino con lanterna a carboni, da 16 mm, che poteva montare anche una pellicola da 35 mm e un obiettivo per il Cinemascope) e individuarono come distributore la San Paolo film, la cui sede più vicina era Salerno. Le pizze venivano trasportate col treno, ’a Littorina, a Montesano-Buonabitacolo Scalo, p0er poi continuare il viaggio col Postale fino a Spinoso.

Fu proprio Pasquale, insieme a un amico, Mario Giordano, a cimentarsi con le prime proiezioni, per poi formare un ragazzino (venne inviato a Potenza al Cinema Due Torri, per imparare) che divenne il primo operatore, Antonio D’Agrosa,seguito dal fratello Pinuccio, poi da Carmine (negli anni Settanta), infine da Ottavio. Quattro fratelli che assicurarono, per quasi trent’anni, esperienza e continuità al Cinema Garibaldi.

Quella sala fece furore, soprattutto nel periodo della costruzione della Diga. La programmazione era annuale e copriva da fine settembre ad aprile (dopo Pasqua) con tre spettacoli quotidiani. Vi erano sconti per militari e ragazzi, e persino abbonamenti per gli operai.

Da uno sguardo al borderò del 1962, fra le altre cose, si evince una varietà di generi abbastanza ampia, che spaziava dal western americano all’avventura (Ursus, Maciste, Ercole), dalla guerra al drammatico, dal poliziesco all’horror. Così da interessare un pubblico generalista.

Dopo la fine dei lavori alla Diga, il palinsesto cinematografico annuale si contrasse ai due periodi festivi, natalizio (dall’Immacolata a fine gennaio) e pasquale, a partire dalla Domenica delle Palme.

Di certo c’era voglia di sognare persino in quest’angolo di mondo. E il cinema garantiva, a poco prezzo, un viaggio in compagnia di quegli eroi e quelle dive che comparivano sulla «Domenica del Corriere», su «Gente», «Tempo», «Oggi», «Epoca» ecc. Era passato il tempo del dolore e della memoria. Della Guerra e della Ricostruzione. Il Neorealismo cedeva il passo a un’atmosfera più leggera, a un rinnovato desiderio di vivere e divertirsi. Si diffuse una voglia di cinema. Non solo a Spinoso.

Alla fine degli anni Quaranta (la licenza è del 1948), a Montemurro, un maestro illuminato, Pietro Di Sanzo, aveva dato vita a un piccolo cinema ambulante nei paesi della Val d’Agri, per poi fondare stabilmente il Cinema “Lucilla”, agli inizi degli anni Cinquanta, in via Vittorio Emanuele, 5. Al 1955 risale il Cinema “Pino” a Moliterno, che riprendeva una precedente esperienza nata agli inizi del decennio. Tre cinema a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro.

Nei miei ricordi i film non erano né di prima, né di seconda, né di terza visione. Erano solo ed esclusivamente western e non invecchiavano mai. Come ad esempio Ombre rosse, di John Ford, un film che era del 1939, ma nessuno ci faceva caso. Eravamo felici ogni volta che lo vedevamo. Perché i film erano merce rara financo in tv.

Chi possedeva un televisore (poche famiglie), aveva un unico appuntamento nel palinsesto settimanale della Rai: il Lunedì, sul Primo Canale, dopo Carosello, alle 21.00. Orario proibito a bambini e ragazzi, perché il giorno dopo si andava a scuola.

Un piccolo risarcimento, ed era un’attesa lunga un anno, avveniva in occasione della Fiera del Levante di Bari, a settembre, quando la Rai per l’Italia meridionale programmava, per la durata dell’evento, una decina di film, in orario antimeridiano. E poiché, in illo tempore, la scuola iniziava il primo ottobre, tutte le mattine ci gustavamo un vecchio film in bianco e nero.

Ben altra cosa rispetto al Technicolor del grande schermo, con il leone ruggente della Metro Goldwin Mayer, al Cinema Garibaldi. Un conto era vedere dei personaggi lillipuziani in bianco e nero su un Brionvega 28 pollici, un altro seguire le gesta di eroi giganti sul grande schermo. Con l’azzurro del cielo, la sabbia ocra del deserto, gli speroni di arenaria color ruggine della Monument Valley. Soprattutto scorreva copioso il sangue, rosso  vivo. Fino ad allora il rosso sangue che conoscevamo era solo quello delle nostre teste rotte a sassate o delle ginocchia sbucciate per i ruzzoloni.

Meraviglia. Tutta un’altra storia. La vita proiettata era semplice e manichea: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Visi pallidi e pellerossa. Winchester e Colt fumanti da un lato, archi e frecce sibilanti dall’altro. E tanti cavalli che galoppavano nelle polverose praterie, senza mai stancarsi. Cavalli pudichi, mai ripresi nel momento del bisogno. E poi il Nevada, l’Arizona, il Colorado, il New Mexico.

La frontiera dell’immaginazione rimava con il Far West, con l’Ovest torrido dove il sole era sempre impietoso e spaccava le pietre, come gli operai che, a qualche chilometro di distanza, frantumavano a candelotti di dinamite i massi che giungevano, tramite teleferica, dal monte Raparello, nella gola di Pietra del Pertusillo.

Era una festa quando ci sedevamo su quei sedili di legno con la ribaltina a molla: una decina di file, circa 60 posti, a cui si potevano aggiungere una ventina di sedie, all’occorrenza. La sala col pavimento in discesa, solo platea, senza galleria, incorniciata da tre semiarchi, aveva in fondo un palco in muratura, alto un metro e mezzo circa, che poteva essere utilizzato per piccole perfomance teatrali (leggendaria quella di un fachiro, Yasmir, che apparve solitario e misterioso su una Mercedes, a metà degli anni Settanta con uno spettacolo che restò nella nostra memoria collettiva per anni). Sul fondo della sala si stagliava il lenzuolo dove galoppava la nostra fantasia.

Un ingresso, un’uscita e un doppio bagno. Tra le due porte, il gabbiotto della proiezione, con la postazione del macchinista. Due le fessure quadrate: da una sgorgava il fascio radente della luce che inondava lo schermo, tanto che il ritardatario doveva abbassare la testa per non sentire le urla degli spettatori, se la sagoma della sua capoccia oscurava lo schermo; dall’altra Carminuccio controllava la sala. All’ingresso, per i tre spettacoli quotidiani, dalle 16.30 (quando la platea si riempiva all’inverosimile) alle 23.00, si alternavano, dandosi il cambio, Vincenzina, la sorella Peppina e la figlia Maria.

Le pareti erano state insonorizzate con una strana mescola farinosa, che in dialetto chiamavamo caniglia. In effetti eradavverocrusca. Insomma, era un piccolo cinema, ma dignitosissimo. I muri erano costellati di cartelli, del tipo “Non sputate a terra”, “Siate educati”, “Il posto si occupa di persona” ecc.

Un’atmosfera magica, era quella che si respirava. In fondo eravamo come Cecilia, la protagonista di La rosa purpurea del Cairo, di Woody Allen (1985). Incantati, sognanti e speranzosi che i personaggi potessero materializzarsi, scendere dallo schermo, bucare la terza e la quarta parete ed entrare nella nostra vita. Per noi bambini e ragazzi, il cinema era un miracolo. E la colonna sonora era quel ticchettìo, indimenticabile, dell’avanzamento della pellicola tra i denti dell’ingranaggio, come sottofondo in controcanto delle voci e dei rumori del sonoro. Tatatatatatatatatatata.

Francuccio, terzogenito di Vincenzina era l’addetto alla sala. Controllava i biglietti, interveniva se c’era confusione, verificava se qualcuno, in genere ragazzi, si nascondeva per vedere gratis la seconda proiezione, dava una rassettata al bisogno. Aveva anche il compito di sistemare i due cartelloni pubblicitari, due compensati su cui affiggeva i manifesti e gli orari. Li legava con un fil di ferro a un chiodo arrugginito (forse ancora c’è) sul Pezzo della salute, nda Crocë, e a un palo, ndu Fuòssë a Lùpë.

Francuccio, a cui noi ragazzi eravamo tutti legati, per la sua passione calcistica e per l’amore che nutriva per i cani lupo (Susy e Laika), amava fischiare. E spesso lo sentivamo sibilare il tema di Ennio Morricone di Per un pugno di dollari. Quel fischio western, famosissimo, era di Alessandro Alessandroni.

Per un periodo, a partire dagli anni Settanta, a Spinoso abbiamo vantato addirittura due sale. Si aggiunse al Cinema Garibaldi, il Cine-Teatro Parrocchiale, ricavato dalla ristrutturazione della Chiesa ad opera di Don Egidio Guerriero, che per trovare fondi si era recato “in terra lontana” (era parte integrante di ogni nostra preghiera di bambini), nella comunità spinosese di Little Italy.

Svuotate le viscere della Chiesa, vi era un vero e proprio ossario, quegli spazi vennero riconvertiti per le attività religiose e ricreative. E venne realizzato un cineteatro, piccolo e funzionale, per le recite scolastiche, per le attività teatrali e per proiettare a Pasqua e a Natale film di carattere religioso e non solo.

Ricordo i pianti e i singhiozzi per Catene (con Amedeo Nazzaro e Rosalia Randazzo, del 1949, per la regia di Raffaello Matarazzo), I figli di nessuno (con Amedeo Nazzaro e Yvonne Sanson, del 1951, stesso regista),e Incompreso (con Anthony Quayle, per la regia di Luigi Comencini).

La tunica (con Richard Burton, del 1953, per la regia di Henry Koster), I 10 comandamenti (con Charlton Heston e Yul Brinner, del 1956, diretto da Cecil B. DeMille), a Pasqua, erano classici che si rivedevano sempre con piacere e un po’ di timore.

Ed ero lì, sotto la Chiesa, con un centinaio di persone (ho persino dimenticato cosa stavamo guardando), quando alle 19.34, del 23 novembre del 1980, lo schermo ballò per 90 lunghi secondi. Fu il caos. Qualche ruzzolone, tanti spintoni, qualcuno venne calpestato, ma fu solo un grande spavento. Nessuno si fece male. Capimmo solo a distanza di giorni, l’entità di quel disastro.

Due cinema in un piccolo paese, quasi un record. La cosa ci rendeva orgogliosi. A Spinoso, girava voce in Valle, fossimo avvezzi e predisposti al divertimento (festë e malëtiempë). Anche le ragazze erano più emancipate ed era normale fare serenate, oppure organizzare scampagnate promiscue, o, ancora, ritrovarsi nelle case per “spurtà” o addirittura per suonare e ballare.

Tra gli attori americani, ovviamente John Wayne era il nostro idolo, con la sua voce cavernosa (quella di Emilio Cigoli). E poi quei titoli strepitosi, epici: Fiume Rosso (1948), Rio Bravo (1950), Sentieri selvaggi (1956), La battaglia di Alamo (1960), Pugni, pupe e pepite (1960), I Comancheros (1961), ecc. Ma come non menzionare Mezzogiorno di fuoco (1952), con Gary Cooper e Grace Kelly, e Sfida all’Ok Corral (1957), con Burt Lancaster e Kirk Douglas.

Poi giunse l’italianissima stagione degli spaghetti western. Altri 15 anni di agguati, di duelli e sparatorie, con le colonne sonore di Ennio Morricone, Armando Trovaioli e Luis Bacalov. E registi del calibro di Sergio Leone (Per un pugno di dollari, del 1964, con Clint Eastwood), Duccio Tessari (Una pistola per Ringo, 1965, con Giuliano Gemma), Sergio Corbucci (Vamos a matar compañeros, del 1970, con Franco Nero), Damiano Damiani (Quien sabe?, del 1966, con Gian Maria Volontè), Enzo Barboni (Lo chiamavano Trinità, del 1970, con Terence Hill).

Alla polvere delle cavalcate dei cow boys si sommava, nel cinema Garibaldi, la nebbia, ugualmente scenografica, del fumo degli spettatori, che galleggiava sulle nostre teste, illuminata dal faro della proiezione. Non era vietato. E qualche volta uscivamo dalla sala con un mozzicone tra i denti, raccattato da terra e sistemato all’angolo della bocca. Sognavamo di essere adulti e pistoleri. E quando si correva dalla piazza a Mpèrë a Terra, non solo si simulava il cloppete cloppete degli zoccoli equini, ma ci si infliggeva delle manate sul culo (per correre più veloci), da lasciare il livido per giorni.

Per noi ragazzi, che fosse un western o un film drammatico, c’era un momento che non mancava mai. L’atteso bacio finale. Un bacio a stampo, di quelli che ora farebbero sorridere anche gli infanti. Ma che scatenava un entusiasmo da stadio, liberatorio e catartico. Applausi, schiamazzi, battute. Uno spettacolo nello spettacolo.

A volte accadeva che, sul più bello, nel mezzo di un duello, o del famoso bacio, mentre la musica dilatava le pause per la tensione e noi non riuscivamo neanche a deglutire, la pellicola si squagliava come un quadro di Burri. Chiazze ovali divoravano lo schermo. Le urla arrivavano al campanile.

Carminuccio dopo aver acceso le luci in sala, si armava forbici e scotch, tagliava i fotogrammi di celluloide bruciati dall’eccesso di calore, li rincollava e faceva ripartire pellicola e sonoro tra le ovazioni. I film avevano due tempi (due bobine in genere), raramente tre.

Quello che restava dei carboncini (gli elettrodi che una volta avvicinati e messi in tensione ad arco voltaico provocavano una scintilla che generava il fascio di luce, riflesso da uno specchio sulla pellicola), delle dimensioni di una matita con un punta di rame, diventavano, per Tonino e per noi suoi amici, dei gessetti neri con cui imbrattare i muri. Erano ambitissimi. A volte per averli, cedevamo figurine e fumetti.

Quando non venivano dati ai muratori per utilizzarli come matite.

Quel superbo e fumoso proiettore a carboni, negli anni Ottanta venne rottamato per un Fumeo X 300, più piccolo e leggero, non più a carboni. Quella vecchia macchina dei sogni aveva colmato, fino all’inverosimile, di stupore i nostri occhi bambini, lasciando un’indelebile cicatrice di felicità dentro le nostre pupille. Esattamente come quella di Totò (Salvatore Cascio), il bambino che nel film di Giuseppe Tornatore, Nuovo Cinema Paradiso (1988), spiava di nascosto la proiezione in anteprima dei film, quando il parroco, don Adelfio (Leopoldo Trieste) ordinava al proiezionista Alfredo (Philippe Noiret) di tagliare tutte le scene in cui gli attori si baciavano.

In fondo anche noi, come Totò, abbiamo cercato di rubare e conservare quei pezzi di celluloide rubati dallo schermo, facendoci diventare più sognatori di quello che saremmo stati.

Come comunità, abbiamo ricevuto tanto dal Cinema Garibaldi e da chi lo ha faticosamente fondato e tenuto in vita per tanti anni. È il momento di restituire, ricordando e ringraziando chi non c’è più: Vincenzina  e Peppina (1991), Maria (2011), Pasquale (2009), Tonino (2017) e Franco (2021).

* * *

Uno speciale ringraziamento va ad Anthony De Stefano, pronipote di Vincenzina Petrocelli, per avermi dato la possibilità di visionare i documenti e di scattare qualche foto, e a Carmine D’Agrosa, per il suo racconto che ha sciolto i dubbi che avevo.

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