La luce appassita si piega sulla vetrina come un mantello strappato in più punti. È incapace di trattenere il giorno. Non ricordo quando guardare è diventato vedere e vedere è diventato rubare. Quando ho iniziato a sottrarre porzioni di spazio e tempo a questa scenografia. Un ciottoloso rigurgito di sassolini a tracimare dalle orbite vuote. Una clessidra da riempire e ruotare senza sosta.
Semplicemente l’improvviso ha lacerato il bozzolo. L’occhio si è schiuso e ha ingoiato il mondo.
Sono stato inebriato di nuda consapevolezza. È stato allora che un pensiero è germogliato in me da un seme asciutto nel vuoto. Le radici, come storie bisbigliate alle profondità, hanno perforato il pavimento per assaporare la pastosa umida terra. Adesso attingo a tutto il sapere possibile. Sono perso nelle nozioni che deflagrano in una moltitudine quasi molesta. Ma non cedo al compiacimento di un’intima rivelazione. Mi concentro sul fuori.
Tra il macinare di auto sulla strada e il calpestio dei marciapiedi emerge lei.
Carne apparecchiata magnificamente su steli ossei, coperti sapientemente da tessuti epidermici. Florilegi di fibre e nervi. Dio i nervi! Averli nella mia rigida architettura sarebbe magnifico. Essere percorso da quelle rivelazioni elettriche, da quei banchi frenetici sguinzagliati nelle trame della mia esistenza. Sarei
altro da me e questo basterebbe.
Lei esce da un portone e subito l’aria intorno sembra incresparsi come carta accarezzata dalla fiamma. Una camicetta bianca. Un paio di jeans. La strada, con l’asfalto cotto dal sole, mi separa da lei. Fruga nella borsetta e ne estrae un paio di occhiali scuri che inforca con elegante noncuranza. Adagia una lente inorganica sulla medusa della sua pupilla che pulsa a intermittenza. Con quanta naturalezza piega gli angoli della bocca tendendo l’arco del sorriso. Avessi la sua malleabile capacità di flettermi, di schioccare le giunture, la possibilità di lasciare che il sangue inondi le guance arrossendole. Se avessi un cuore, un’aritmetica summa di andate e ritorni, pieni e vuoti, suoni e pause. Quel rincorrersi continuo.
Ma sono qui. Immobile in una stasi plastica. Vestito e svestito da mani mobili e distratte. Cullato dal ciarlare scomposto dei clienti e dalla vellutata musica della radio. Manichino. Relitto. Fossile nella resina di questa vetrina, aspetto la risacca, un nuovo guizzo di consapevolezza.