IL MIO GIRO D’ITALIA

Nei giorni in cui la mia Città si appresta a ricevere l’arrivo del Giro d’Italia parto per lavoro, due giorni per un sopralluogo tecnico intorno a Rimini, ho tra le mani un libro, “Alfonsina e la strada” di Simona Baldelli; sono stato qualche giorno fa alla sua presentazione e me lo sono portato dietro per leggerlo durante il viaggio.

Mi siedo al mio posto sul treno, apro la prima pagina del libro e il mio Giro d’Italia comincia.

La fatica. La fatica. Nessuno ci pensa alla fatica. Ci sono solo occhi per medaglie e trofei; o le fantasie sui soldi guadagnati, sempre troppo pochi, che vanno via in un lampo. Si discute di applausi, titoli sui giornali, ma si dimentica la fatica. E la solitudine”.

Leggo le prime quattro righe di questo libro e resto fulminato.

Che incipit meraviglioso!

Mi addentro nella lettura e conosco la protagonista, Alfonsina Morini, in Strada, classe 1891, l’unica donna ad aver mai corso un Giro d’Italia insieme agli uomini.

È una storia formidabile quella di Alfonsina, una storia di fame, fatica, pregiudizio, malattie, ma anche di amore, di indomabile forza, di determinazione a inseguire il sogno.

Dalle nebbie della campagna non lontano da Bologna, in una frazione il cui nome è di per sé monito e sentenza, Fossamarcia, una ragazza testarda, desiderosa di voler provare a sé stessa di essere abbastanza da meritare amore, una carezza, un po’ di considerazione, inforca per la prima volta una bicicletta.
Di nascosto, di notte, prova. Cade, si rialza, prova ancora e infine va, va provando la sensazione del vento sulla faccia, intuendo che esistono possibilità. All’inizio solo quelle di sbarcar meglio il lunario col suo lavoro di sarta, poi che, magari, con quella bicicletta c’era la possibilità di tirar su del denaro, di vivere meglio, di portare a casa un maialetto, vinto in una gara di provincia e dar da mangiar carne ai suoi cari, come ai signori.

La storia di Alfonsina è formidabile e meravigliosa, ogni frammento del puzzle che è la sua vita, brilla come un diamante, la storia d’amore con il suo Luigi Strada, timido, fragile, innamorato; piccolo genio inventore che la sostiene, la incita, la spinge ad osare contro una società che la disprezza, la sminuisce, la vuole mettere “al suo posto”. Perfino dalla stanza del manicomio in cui finisce spezzato dalle sue delusioni da inventore l’ultimo suo barlume è “Come sei bella Alfonsina. Non scendere mai”.

Non scendere mai dalla bicicletta.

Alfonsina e i suoi fantasmi, i piccoli orfani del brefotrofio che vengono ospitati in casa della sua famiglia per prendere un piccolo sussidio e che muoiono di stenti, che le appaiono ogni tanto, affamati di riscatto, e che lei sfama raccontandogli i suoi viaggi, le sue avventure.

Fa carriera Alfonsina, arriva a esibirsi davanti allo Zar di Russia, incrocia la zarina, le figlie dello Zar e il piccolo Aleksej Nikolaevič pallido, quasi trasparente, come un annuncio della tragedia che spazzerà dal mondo l’intera famiglia e metterà anche loro tra i fantasmi della coscienza di Alfonsina.
Negli occhi delle due donne, per pochi attimi l’una di fronte all’altra, messaggi muti di comprensione.

Poi il circo, prima presentata come la corridora, poi a fare il giro della morte con una scimmietta sulla spalla, esposta come un esemplare da freak show, sembra quasi un tramonto, ma non per l’Alfonsina, la “regina della pedivella”.

L’ Alfonsina che insiste, che affronta il direttore della Gazzetta dello sport, Alfonsina che si mette in gioco e chiede di partecipare al Giro d’Italia.

Un altro freak show nell’intenzione di chi la accetta, in un giro povero di grandi attrazioni ecco un elemento “di colore” per far discutere, per attirare le attenzioni, per vendere copie, ma l’Alfonsina non si fa illusioni, sa che queste sono le regole del gioco ed è confidente nella sua tempra.

Lo spaccato dell’Italia che emerge è miserabile e arretrato, ma luminosissimo per la determinazione, per il desiderio di sopravvivenza che emerge dalla fatica di Alfonsina.

Questa non è la storia di una suffragetta, nel mondo della fame e del bisogno si è concentrati su altro, Alfonsina corre per vivere, per provare a se stessa che non è “roba di avanzo”. Per noi che leggiamo con gli occhi di oggi la sua storia ha una valenza esemplare, ma essa è autenticamente storia di fame, di fatica, è la ricerca di amore, consenso, considerazione, tutte cose che in una famiglia povera come quella dei Morini, non avevano possibilità di esistere, strozzate dalla fame, dal bisogno, dalla lotta per la sopravvivenza che rende spesso gretti, affamati.

Sono meravigliosi i momenti di intesa, c’è un filo potente che unisce le donne del libro, Alfonsina, la Zarina, la contadina che incontra nel momento più nero sulla strada del Giro, c’è un dolore, c’è una condizione che si riconosce e che le accomuna, una condizione che accomuna tante donne anche oggi e che davvero sarebbe bello sparisse da tanti occhi, quella della ineluttabile fatica, della rassegnazione attiva a scelte obbligate che tanto spesso costringono a rinunciare ad una parte di sé.

Il libro di Simona Baldelli mi rapisce dalle prime pagine e mi porta in sella sulla bici, anzi no, sulle bici, di Alfonsina, dalla sua prima vecchia e sgangherata a quella del Giro d’Italia, mi mostra le curve, la fatica delle salite, il dolore delle ferite, mi fa percepire il bruciore corrosivo dell’odio e della derisione, il balsamo confortante dell’amore.

Il mio Giro d’Italia l’ho percorso seduto sulla poltroncina di un Freccia rossa, immerso nella lettura di un libro veramente straordinario che vi suggerisco di leggere perché la storia di Alfonsina Strada è di quelle che bisogna conoscere e la scrittura di Simona Baldelli è assolutamente deliziosa.

Finisco il libro durante il viaggio di ritorno, sono all’altezza di Vasto, al finestrino sfilano campagne verdi di grano non ancora maturo, resto a guardare immaginandomi sul viso la sensazione del vento come se stessi correndo in bicicletta, gusto a fondo questa sensazione di appagamento, come il retrogusto amarostico e legnoso di un buon caffè al termine di un lungo e delizioso pasto, la mia mente insegue immagini del libro fino all’arrivo.

“Alfonsina e la strada” è uno di quei libri, non frequenti, che al termine della lettura lasciano nel lettore un sincero e forte sentimento di gratitudine per chi lo ha scritto.

La suggestione che mi piace cogliere da questa storia riguarda noi uomini, dovremmo tutti essere come Luigi Strada, capaci di guardare con amore e sussurrare “Come sei bella. Non scendere mai”, il nostro sarebbe un mondo migliore.

Buona Strada Alfonsina.

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