Peraspina Perapoma, Treditre editori, è il secondo libro di Antonio Petrocelli, attore e autore di origine lucana. Il volume è impreziosito dalla prefazione di Andrea Di Consoli.
Versi chiari. Scarni. Liberi da orpelli. Permeati da atmosfere rurali, a volte brutali, altre malinconiche. Un mondo rurale trasposto in un realismo lirico dal forte impatto evocativo. Un lessico semplice ed efficace. Una poesia contadina. Spontanea. Primitiva e quindi vera. Senza i tradimenti dei versi agghindati. Delle contorsioni eccessive della parola.
La raccolta è scandita da quattro sezioni: peraspina perapoma, mio padre torna, jus de pommes, e poi venne il resto.
Componimenti dal sapore autobiografico. Intimi, ma al tempo stesso universali. Come deve essere la poesia autentica. Una delle protagoniste di questo viaggio lirico è la terra, declinata in tutte le sue espressioni. Primigenia. Spietata, ma accogliente. Un dono che non sempre si apprezza. Un dono che, paradossalmente, si paga.
“(…)la terra non la vuole nessuno/quando bisogna pagarla.” (La terra non la vuole nessuno).
Una terra che consuma. Che divora. Feroce. Si ha l’impressione, leggendo le poesie di Petrocelli, di cogliere un riflesso di alcune novelle di Verga. Perché la terra non perdona. Va nutrita con le nostre stesse vite. Va innaffiata col sangue.
“Non si mangia la terra/ti mangia lei/ti mangia il sangue/ti fa diventare pazzo.” (Non si mangia la terra)
La figura paterna ricorre nelle poesie contenute in Paraspina Peramoma. Il nettare amaro della nostalgia ci sfama, verso dopo verso. Nutre l’albero del ricordo che veglia sulle nostre radici. Rimembranze. Ricostruzioni di segmenti di esistenza. Momenti che si fissano senza un motivo preciso nella memoria. Indelebili. Come quelle frasi dette per gioco e poi diventate viatico:
“Camminando per la via/mi prendi in giro dicendo:/-Nel pomodoro c’è la vitamia” (La vitamia)
Il papà gigante agli occhi dell’infanzia. Osservato con stupore, dal basso dell’età piccola. Il genitore, divinità benevola. Monumentale. Impossibile seguirne le orme procedendo allo stesso passo. Si resta inevitabilmente indietro.
“Troppo largo il tuo passo,/starti dietro non posso” (Starti dietro non posso)
Il padre è come la terra. La base di appoggio di tutto. Le mani sono l’azione. L’agire che caratterizza gli uomini di una volta. Non prigionieri del pensiero labirintico, ma forgiatori dell’esistenza semplice e vitale. Quella basata sul fare.
“Le mani di mio padre/sono una crosta terrestre.” (Le mani di mio padre)
La propria natura non si può negare. Noi abitiamo i luoghi e i luoghi ci abitano. Allontanarsi non cancella le tracce dei nostri sentieri segreti, ma li rivela. Mostra con chiarezza ciò che siamo davvero.
“Sono un contadino/in fuga dai contadini.” (Contadino in fuga)
Lasciare casa. Per studiare. Per lavorare. Portarsi altrove. Nei versi di Petrocelli si assapora il malinconico cullare delle partenze alle ore buie della notte. Quando tutto e attutito dall’oscurità. E siamo vicini e lontani da ogni cosa.
“Partire di notte (…) /e montare sulla corriera/col motore che sbuffa impaziente”
Di nuovo ritorna il richiamo delle proprie origini.
“Monto sul cingolo/strattono, arretro, frango/ti faccio il verso:/figlio di gatto/topi acchiappo” (Figlio di gatto)
Una musicalità genuina. Non fine a se stessa, ma soglia di un’agnizione a specchio. Un riconoscersi in ciò che era nel passato e continua ad essere nel presente. La scoperta che porta in sé il seme del padre germogliato nel figlio. Ci si scopre fedeli alle proprie radici salde e inestirpabili.
Questa seconda opera di Petrocelli è un percorso poetico da assaporare con la calma dei pomeriggi sospesi dell’estate. Tra il verde e il ciarlare delle cicale. Versi da camminare. Perché come leggiamo in Peraspina Perapoma, componimento che dà il nome alla raccolta: “La strada,/solo la strada è di tutti”.