Quante stelle nei flipper, sono più di un miliardo

Didascalia n. 46

A scuola elementare, negli anni Sessanta, l’unica lingua che si imparava a scuola, con tanto di grammatica ed esercizi, era l’italiano. Per quanto riguarda la madre lingua, io e i miei sodali eravamo gutturalmente dialettofoni. Vocali chiuse e parole tronche. Sfottuti perennemente dagli amici moliternesi che al contrario avevano superbe vocali sciancate.

E le mie zie bolognesi che mi portavano alle Feste dell’Unità (i miei nonni vivevano lì, dopo aver lasciato Armento nel 1961) si divertivano e facevano divertire i propri amici, esibendo il nipotino che si esprimeva in un idioma ruvido, esotico e buffo.

Parlavo “marocchino”, maruchèn, dicevano. Ma significava terrone.

Nel 1973, scoprii a scuola, in prima media, il francese da un docente laureato in Giurisprudenza, dallo strano cognome, Straqualursi. Strano anche lui. L’anno dopo fu la volta del latino, facoltativo in seconda media, ma fortemente consigliato ai miopi. L’Inglese della perfida Albione… niente. Non pervenuto. Persino al Liceo Classico che frequentai a Viggiano. Solo due anni di Lingua straniera. Al Ginnasio. E sempre francese.

L’inglese lo scoprii invece nel Bar Sport di Antonio Bancone, nella sala della carambola e del biliardino (c’erano anche due tavoli per giocare soprattutto d’inverno, visto che la sala con la macchina del caffè e il banco era piccola). Le prime parole che conobbi furono: insert coin, play, tilt, bonus, players, record, time, ball, buttons on side of cabinet, game over ecc.

Il primo e unico rumoroso docente di inglese fu un… flipper. Rutilante di colori e di jingle magnetici che facevano allegria, come quando appariva in paese un circo e i clown, pifferando e schiamazzando, ti regalavano i biglietti omaggio per strada.

Un flipper nuovo nel bar era una festa. La voce correva in fretta tra i ragazzi in paese. Andava via un compagno di giochi, ma lo sostituiva  un altro, migliore, più colorato, con una narrazione diversa e altre prodigiose funzioni. Prima di usarlo lo studiavamo nei dettagli, leggevamo i nuovi termini, le istruzioni, sempre in inglese, cercando di capire il senso. Al piccolo vocabolario di anglismi, già posseduto, si aggiungevano nuovi lemmi.

Bastava accendere l’interruttore, in un incavo nascosto nella pancia, affinché il titano si animasse. Si inseriva la moneta e con il cursore a molla si spingevano nell’agone elettronico, una dopo l’altra, le cinque palline. Con le due pinne (da cui flipper appunto) bisognava evitare che la biglia finisse in buca. A ogni contatto con i funghi luminosi e respingenti lo score aumentava. A volte arrivavano flipper con la possibilità di giocare in doppio, player 1 e player 2. Sfide all’ultima biglia di acciaio. Spesso il record si scriveva sul fianco del testone con una bic: nome e punteggio. Quante monete, quante sfide. Sussurri, grida e sfottò.

Fonzie (Arthur Fonzarelli) era il nostro mentore e il nostro idolo, il suo flipper era il nostro flipper. Il suo ciuffo, il nostro ciuffo. E se il giubbino era di finta pelle, be’ pazienza. Lui era un duro ma con stile. Il nostro Bar Sport, con un po’ di fantasia, diventava il bar del bonario Arnold. Rappresentava nel nostro immaginario il contesto ideale dei nostri giorni felici.

Happy Days andò in onda negli Stati Uniti dal 15 gennaio 1974 al 24 settembre 1984. In Italia la serie arrivò con ritardo e fu trasmessa su Rai 1, dal 1977 al 1987, per un totale di 11 stagioni, ad eccezione della penultima che andò in onda su Canale Cinque.

Hey!, esclamava Fonzie. Hey!, scimmiottavamo noi, quando si riusciva a salvare la palla dalla buca, con un colpo di reni e di pulsante.

Il flipper nel bar di Arnold era un “Nip-It”, primo ed unico modello dotato del “Balligator”, un meccanismo per prendere al volo la pallina che si trovasse a passare nei paraggi, situato in alto a destra nel piano.

Guardare da dietro un giocatore di flipper lo rendeva ridicolo o sensuale a seconda se le movenze erano da limbo caraibico o tamarrate da camallo, che inevitabilmente accendevano il tilt, spegnendo la macchina e lasciando la pallina filare in buca.

Per noi adolescenti vi era un retrogusto erotico, stimolato anche dalle luminose immagini di donnine semivestite che spesso evocavano i Casinò di Las Vegas. I movimenti pelvici erano ondulatori e sussultori. L’abilità principale era nel gioco di braccia, di polso, di dita. Colpetti da calibrare al momento giusto. Ma soprattutto occhio e rapidità.

Lo racconta bene Oscar Pettinari, il borgataro del film di Carlo Verdone in Troppo forte (1986), quando dà una lezione a una schiappa: «Lavori troppo de polso e usi male l’avambraccio. Permetti […] Cioè il rapporto col flipper è come un rapporto sessuale. È come un amplesso. Non è il polso che deve da’ ’a spinta a pallina, ma è il ventre […] Questo è il movimento. Il colpo dev’esse secco, deciso, preciso. Co’ ’sto sistema to magni!».

E pensare che il flipper, che potrebbe sembrare figlio di Thomas Edison, americanissimo prodotto dell’edonismo americano, non è altro che l’evoluzione elettronica di una bagattella francese, meccanica, molto amata da Re Sole, ma anche da  Beethoven, tanto che nel 1802 compose sette “scherzi” intitolati appunto Bagatelle.

Negli States in realtà il gioco si chiamava pinball (palla tra i chiodi). Era tutto lasciato al caso, perché il giocatore non poteva intervenire in nessun modo. Il tiraemolla, l’invenzione del pistone di lancio a molla nel 1871, diede un’altra spinta alla notorietà del passatempo.

Il primo flipper moderno è del 1933 ad opera di Harry Williams, un ingegnere di Stanford. Nel 1947, Harry Mabs, uno degli ingegneri di Gottlieb, l’industria costruttrice americana, apportò al gioco un’innovazione fondamentale, che ne decretò il successo. Aggiunse le palette elettromeccaniche, flipper, da cui derivò il nome, con cui respingere la palla verso nella parte alta del ripiano inclinato. La parte diede nome al tutto, come nelle metonimie in letteratura.

Il giocatore da spettatore, finalmente, si trasformava in protagonista, avendo la possibilità di controllare il caos-caso, o quanto meno di opporsi al destino della palla in buca. Poteva sconfiggere l’horror vacui attraverso i respingimenti. Difesa e attacco. Le palette, inoltre, potevano servire per colpire bersagli luminosi o abbassare tessere, per infilare la palla fra traiettorie sopraelevate o spingerle in buche da cui venivano sparati a velocità raddoppiata. Il tutto era finalizzato a ottenere dei bonus. Metafora dell’esistenza e della lotta per alleggerire la gravità della vita e l’alea della sorte. Game over.

Negli Stati Uniti, patria di casinò e bische, l’umile flipper, che si era diffuso in ogni bar o locale dell’East e del West, dai laghi dell’Ontario alla foce del Mississippi, nel 1965 venne vietato perché ritenuto d’azzardo. In Italia per non usare la parola “flipper”, volpinamente, si preferì per un certo periodo, definirlo “bigliardino elettronico”. Viva l’Italia.

Soppiantato da avide slot machine che tassano la disperazione umana, senza alcun talento, il flipper non esiste più, se non per i collezionisti. Ha però lasciato come eredità linguistica il termine “tilt”, in espressioni del tipo “andare in tilt”, “essere in tilt”, “avere il cervello in tilt”. Le macchine sono fragili e fallibili. Possono incepparsi. Lo stesso accade agli umani. Macchine complesse, ancor più fragili e fallibili.

Tilt per ritornare all’inglese che non ho potuto studiare significa “colpo, inclinazione, ribaltamento” e in effetti la nostra esuberanza era tale che a volte Antonio il barista saliva i tre gradini, incazzato nero, e ci ribaltava fuori dal bar. Cartellino rosso. Il vero Tilt, per noi, era lui, che ci puniva impedendoci di giocare, per qualche ora o per qualche giorno.

Ci puniva togliendoci le stelle, quelle che Lucio Dalla cantava in Anna e Marco del 1979. Ma poi ce le restituiva.

E la luna è una palla ed il cielo è un biliardo

Quante stelle nei flipper, sono più di un miliardo

Marco dentro a un bar non sa cosa farà

Poi c’è qualcuno che trova una moto e si può andare in città.

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