Il filosofo e il mercante

Ho letto la prima volta “Avere o essere?” di Erich Fromm quando avevo vent’anni o forse meno, e poi, nel tempo, mi è capitato più volte di ri-sfogliarlo nelle varie edizioni che mi sono capitate fra le mani, come si fa solitamente con i classici, stimolato da letture o da esperienze che mi rimandavano a quel testo. L’ultima occasione per ripensare al libro mi si è presentata qualche giorno fa: l’imput è partito da una storiella senza autore trovata per caso su una vecchia antologia mentre mettevo in ordine volumi. È ambientata in tempi assai remoti e racconta di un povero filosofo e di un ricco mercante incolto, entrambi un po’ in là con gli anni, ma non ancora vecchi. Il mercante guardava con aria di sufficienza il giovane cavallo bianco del filosofo e quando, in assenza o in presenza del filosofo, aveva l’occasione di inserire qualche battutina sarcastica nei suoi discorsi sghembi saturi della sicumera propria di chi ha e non sa, non se la risparmiava. Il filosofo, dal suo canto, avvolto nella coltre di dubbi che la ricerca della sapienza fa calare sulle teste, si limitava a sorridere senza dire niente. Un giorno i due si incrociarono nei pressi di una bottega. Il filosofo era sul suo ingenuo cavallo bianco e il mercante su un vecchio mulo rosso di nobili natali. Il mercante prima disse al filosofo che un cavaliere lo si giudica innanzitutto da come monta sul suo cavallo; quindi, con fare altezzoso, proseguì dicendogli che anche lui aveva un cavallo, ma un cavallo vero, nero, costoso, potente e di razza che teneva sempre rinchiuso nella stalla perché impossibilitato a utilizzarlo; e difatti il filosofo non lo aveva mai visto, quel cavallo. Dopodiché  si salutarono e ognuno proseguì per la propria strada: il mercante sul mulo a curare i suoi affari; il filosofo, sul cavallo bianco senza pedigree comprato in fiera a pochi soldi, in groppa con la sua bambina che chiamava Principessa (perchè sapeva del potere che hanno i nomi), diretto verso il suo castello, che in realtà non era affatto suo (ma sapeva anche che un luogo, in ogni istante, è di chi lo vive con consapevolezza e amore, come il giardiniere de “Le affinità elettive” di Goethe con il “suo” giardino). Quel giovane e agile cavallo bianco, senza “valore” ma tutto “essere”, in realtà gli faceva possedere il mondo.

Penso che questa breve storia sia il miglior sunto che si possa dare del vecchio saggio, sempre nuovo, di Erich Fromm.

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