Il Sessantotto, il primo giorno di scuola e I ragazzi di Padre Tobia

Didascalia n. 49

Primo ottobre, era un martedì. La campanella suonò alle 8.30. Davanti alla scuola dedicata a un grande giurista di Spinoso, Biagio Petrocelli, docente di Aldo Moro a Bari, salutai mia madre, e sotto l’occhio protettivo e lungo di Peppe il bidello varcai la porta delle scuole elementari, in un anno che ebbe il privilegio di diventare un sostantivo, il Sessantotto appunto. In quell’anno traghettai dall’Asilo di Suor Raffaella, giù al paese, alle Scuole Elementari, su in paese. Dalle scuole basse a quelle alte. Buttata via la baschetta, il cestino,si passava alla cartella con bretelle da portare sulla schiena.

Il 1968 fu l’anno in cui Pippo Baudo ebbe la sua prima conduzione di Sanremo (dal primo al 3 settembre). Vinse un cantautore, Sergio Endrigo in accoppiata con Roberto Carlos, forse un risarcimento per la tragica e misteriosa morte di Luigi Tenco, l’anno prima.

Il 10 febbraio Giuseppe Ungaretti fu chiamato dal Presidente del Consiglio, Aldo Moro, ancora lui, a palazzo Chigi, per festeggiare in pompa magna gli Ottant’anni (in realtà era nato l’8 febbraio). Fu una gran festa a cui parteciparono anche  Montale e Quasimodo. In quell’occasione la Tigre delle piramidi disse che stava festeggiando per la quarta volta vent’anni, ben consapevole che in Francia “ottanta” si dica “quatre-vingt”.

Anche noi festeggiammo a casa. Ma non Ungaretti. Festeggiammo Papà Pinuccio. Nato il 10 febbraio, del 1933 però. Andava per i 35 anni ed era bello come un divo della tivvù, sembrava un Walter Chiari dagli occhi grigio-verdi.

Da lì a qualche giorno, il primo marzo, data simbolo, gli studenti della facoltà di architettura di Roma, a valle Giulia cercarono di forzare la serrata decisa dal rettore. Fu guerriglia. Il Sessantotto si trasformò in un altro Quarantotto. Proteste operaie e richieste di una nuova scuola da parte degli studenti. La fantasia al potere, la Beat generation e il pacifismo.

Noi a Spinoso eravamo lontani e piccoli. Il mondo era in bianco e nero e viaggiava sulle frequenze di un Philips valvolare da 28 pollici. Il telegiornale era per adulti. A noi erano riservati «Carosello» e la «Tv dei Ragazzi». Ci bastavano.

Nella settimana a cavallo del primo ottobre, Renzo Arbore, in Bandiera Gialla del «Radiocorriere Tv», informava i suoi seguaci di musica leggera, anzi leggerissima, che al primo posto in classifica dei 45 giri più venduti in Italia c’era il supermolleggiato Adriano Celentano con Azzurro, e in Inghilterra gli “Scarafaggi”, i Beatles, primeggiavano con Hei Jude, un inno alla vita, dedicato ai ragazzi di ogni dove, quindi anche ai boys rupestri di Spinoso, a cui si augurava di credere sempre in qualcosa, di provarci nella vita, di cogliere le opportunità. Un buon viatico per il primo giorno di scuola.

Ad accoglierci in classe, il primo ottobre trovammo una maestra siciliana, Alfonsina Doris, bionda e gentile, che rimase un solo anno. Insegnante unica, insegnava tutto. Era meglio di Wikipedia “la seconda mamma”. In classe eravamo solo maschi. Diciassette monelli, di cui uno solo occhialuto. Io. Tutti in brache lunghe, solo uno con i pantaloncini all’inglese. Sempre io.

Tutti però col grembiulino rigorosamente blu, collet­to bianco legato da un nastro rosso, e uno scudetto su cui campeggiava la classe di appartenenza in numeri romani. Operai scolastici con la tuta blu.

Quell’indumento aveva diverse funzioni, pratica, perché doveva proteggere dall’inchiostro e dalla polvere di gesso gli abiti settimanali, e sociale, doveva nascondere le differenze di ceto ed economiche delle famiglie. Dovevamo essere tutti uguali. La forma era sostanza, da un punto di vista etico e pedagogico. Non ce ne poteva fregare di meno. Avevamo poco in paese. E tutti avevano quel poco. Eravamo uguali.

Nella cartella, un quaderno a righe, uno a quadretti, astuccio con gomma, matita, temperamatite e una confezione di pastelli Giotto della Fila. Quella classica in cui Cimabue guarda Giotto che circondato da un gregge disegna il ritratto di una pecora, su quella che mi è sempre sembrata una lapide mortuaria. La stessa immagine era riportata sul piccolo album da disegno liscio. Completava il corredo una Brioss Ferrero e un succo di frutta Yoga con un apribottiglie Peroni, gadget offerto dal barista a mio nonno.

L’anno successivo, diventammo classe mista, non in ossequio all’uragano sessantottino, ma al ritardo con cui venne applicata la Riforma scolastica del 1963 che istituiva la Scuola media unica e introdusse altre pinzellacchere. Giunsero quattro femminucce ad addolcire l’atmosfera un po’ tamarra e belluina: Franca, Carmela, Rosetta e Caterina. Scoprii che loro potevano portare i capelli lunghi e noi no. Solo zazzera. A tutti però Minuccia, la nuova maestra, controllava se avevamo i pidocchi e le mutandine pulite. Ispezione rigorosa. L’igiene era importante.

Grandinavano bacchettate di scuola comportamentista stimolo-risposta-rinforzo. Ti comportavi bene, caramella. Non ubbidivi o non capivi, una serie variabile di colpi si abbatteva scientificamente sui palmi. Guai a ritirare le mani!

Eravamo fortunati, perché c’era di peggio sul nostro piano e su quello superiore. Ovviamente non si diceva nulla a casa, dove del comportamentismo di Pavlov e del suo cane non sapevano nulla. Tra le mura domestiche vigeva il detto poco montessoriano  del “mazzë e panellë fannë le figlië bellë”. Per cui si rischiava di aggiungere al cotto, l’acqua bollente. La complicità tra la figura genitoriale e quella istituzionale raggiungeva l’acme, quando incontrandosi per strada, dal panettiere, o al bar, non esistevano ancora gli incontri scuola-famiglia, il padre o la madre siglava il patto scellerato con un lapidario “signoramaè, rallë”, “picchialo”.

Il primo ottobre del 1968, la campanella liberatoria risuonò alle 12.30. Non esisteva da noi il tempo lungo o prolungato di oggi. Le ore settimanali erano 24, dal lunedì al sabato. Non c’erano i genitori tremebondi ad attenderci all’uscita. Non si usava. Era vergogna. Eravamo cresciuti allo stato brado e non c’era vicolo, anfratto, pertugio, ma anche ballatoio, albero e cespuglio del paese che non conoscevamo. La prima cosa che facemmo quel giorno, e ripetemmo catarticamente tutti i giorni dell’anno, fu quella di strapparci letteralmente di dosso il grembiulino per correre a casa, finalmente liberi come Spartaco.

Eravamo i “remigini”, perché il primo ottobre era, è, San Remigio. Un nome inesistente alla mia collinare latitudine.

Remigio ci suonava strano, anche se avevamo un Eligio tra i compañeros. Ci ricordava più Topo Gigio che il santo francese che convertì Clodoveo, il re dei Longobardi.

Il giorno prima, infatti, il  30 settembre del 1968, nella «Tv dei ragazzi», che iniziava alle 17.45, dopo il segnale orario delle 17.30 e l’edizione pomeridiana del Telegiornale, andò in onda Noi siamo le colonne… della prima elementare, la Festa dei Remigini, dall’Antoniano di Bologna, con Cino Tortorella, quello che faceva mago Zurlì, per intenderci, e duettava con Topo Gigio, la versione italiota di Michey Mouse della Walt Disney, ideato da Maria Perego e Guido Stagnaro.

A casa, dopo la scuola, si divorava il pasto e si subiva il Telegiornale delle 13.30. Quindi cessava la programmazione. La Rai Radiotelevisione Italiana si offriva con parsimonia. Poche ore al giorno, senza essere invasiva. Anche per dare ai ragazzi la possibilità di studiare senza distrazioni. Mamma Rai, essendo una brava mamma (la terza), mica ci distraeva dopo la scuola. E noi nel primo meriggio giù a fare i compiti in tutta fretta per poi, stimolo-risposta-rinforzo, essere premiati con la «Tv dei ragazzi» sul Canale nazionale. Si chiamava così. Altro che il palinsesto infinito di ora, accaventiquattro, tutto di tutto a tutte le ore. C’era un ordine, un’attesa, un desiderio e la felicità.

Il secondo canale non ricordo se non si prendeva perché la Val d’Agri non era coperta o se dipendeva dalla mia antenna, sta di fatto che si accendeva solo di sera, dopo le 21, per un paio d’ore e per proporre musica sinfonica o un documentario di Folco Quilici.

Sempre in quell’anno fatidico, prese il via I ragazzi di Padre Tobia, una serie all’insegna dei buoni sentimenti con sfumature da giallo, e andò avanti per 4 stagioni fino al 1973, ma furono solo e in tutto 14 episodi. Cinquanta minuti la durata. Padre Tobia, un Don Matteo ante litteram, mi stava simpatico perché era un prete alternativo, giovane, insegnava il Judo e, come me, amava i fumetti e disegnare (lui si divertiva con le caricature).

Anche noi facevamo gruppo. Io amavo i miei compagni che in classe chiamavo per cognome (De Stefano, Marano, Lagrutta, Torraca, Padula, Franco, Mitidieri Caltieri, Torraca, Messina, Roccanova), e che fuori dal querulo recinto chiamavo per mezzo di paranuomë, propri o di famiglia: Ciucculatérë, Pupaiòlë, U fuchìstë, Parruzzìnë, Ciuciulèddë, Renajanca, Zucarièdd, Cìclë, Gulp, Patè Patù, Calanàg, Pìl rë ciuccë ecc. Io per loro ero “Biàsë a cuncièrët”, soprannome di famiglia paterna, o Bladimiro, non so perché. In alternativa Quattuócchië. So perché.

Amavo i miei compagni e spesso quando si faceva combriccola si cantava a squarciagola Chi trova un amico trova un tesoro, che era la sigla dei Ragazzi di Padre Tobia. Avrei scoperto dopo che le musiche sono del grande Roberto De Simone, che mio zio Michele, classe 1933, dice di aver avuto come compagno di banco a Venosa dai Salesiani durante il Ginnasio.

La canzone era il nostro inno, una sorta di giuramento, prima delle avventure quotidiane.

Noi siamo i ragazzi / più ricchi del mondo / La cosa più importante / è non essere soli, / trovare un amico / è chi ti consola / e chi ti tende una mano // Nei momenti belli e brutti di ciascuno, / noi siamo uno per tutti tutti per uno. / Chi trova un amico trova un tesoro / Noi siamo i ragazzi più ricchi del mondo!

 Avevamo poco in paese. E tutti avevano quel poco. Eravamo uguali. E ci sentivamo i più ricchi del mondo. Proprio come i ragazzi di padre Tobia.

Chissà se quel giorno, il primo ottobre del 1968, alle 17.45, nell’ambito della Tv dei ragazzi diedero una puntata del telefilm!

Ps. A proposito, compagni di scuola del 1962, andiamo per i Sessanta quest’anno. Festeggiamo?

Condividi