Didascalia n. 51
Se dovessi fare la mia personale storia del rammarico, saprei di certo da dove iniziare. Il “rammarico” non è la malinconica presa d’atto che non vi sarà mai corrispondenza tra i propri sogni e ciò che si è realizzato nella vita. Non è così importante. Il rammarico è qualcosa di più terragno, di meno utopico.
La parola, che deriva dal latino, ci aiuta a stringere il significato, ad afferrarlo meglio. “Amaricare” significa “rendere amaro”, quindi non è semplicemente un amareggiarsi per qualcosa che dispiace sia accaduto e non puoi fare più niente. No, no. Il rammarico è avvelenarsi un tantinello la vita da soli, è insufflarsi un surplus di bile, di umore nero, nei vasi di sangue.
È un rendere asprigno qualcosa “deliberatamente”,” colpevolmente”. È una cicuta, non letale, che beviamo consapevolmente, a volte per accidia.
Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni
Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni
Va beh, lo ammetto e mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia oh, il primo che ha studiato
Potrei dire anch’io “Se io avessi previsto dati causa e pretesto, le attuali conclusioni…”. Ma non ho previsto. E poiché Francesco Guccini ha superato gli Ottanta e si è ritirato dalla scena alla fine del 2011, non avrò modo di ascoltare e vedere un suo concerto da vivo.
Il mio sogno. Il mio rammarico.
Ho sempre rinviato. C’è sempre stata una fetusissima bazzecola, un’insignificante minchiata, un irritante inciampo a farmi rinviare l’appuntamento col maestro di Pàvana, col suo fiasco di lambrusco, con la sua inconfondibile voce, dolce e roca, con le sue poetiche storie. Francesco Guccini è il mio cantastorie, il mio antidivo, il mio gigante buono, il mio artigiano della musica.
Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante
Mia madre non aveva poi sbagliato a dir: “Un laureato conta più d’un cantante”
Giovane e ingenuo ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo
E un cazzo in culo e accuse d’arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta
Per lui, sì per lui, ho imparato a suonare, pardon a grattare, la chitarra. Non avendo genitori canterini, anzi stonati, non avendo io, non dico mezzo orecchio, ma neanche mezzo lobo, mi sono imposto un solo obiettivo musicale, con una scassatissima e stuccatissima chitarra Estudiantina, comprata di seconda mano per 4.000 lire, alla fine degli anni Settanta, da Peppino, un bravo chitarrista: imparare a suonare l’Avvelenata di Guccini. Null’altro.
L’avevo sentita nel 1978 durante un’anomala assemblea degli studenti dedicata al rapimento di Aldo Moro. Era il 17 marzo, un venerdì. Tramortiti dall’uccisione della scorta da un commando di terroristi rossi e dal sequestro del leader democristiano, il giorno prima, gli studenti di terza liceo classico avevano deciso che non si poteva far finta di niente. Con la disponibilità del preside Signoretti e dei docenti fu organizzato in fretta e furia uno sciopero-incontro, che avvenne all’esterno del “Pascoli”, a Viggiano, quando ancora si trovava nei locali dell’Hotel dell’Arpa.
Uno studente più grande, seduto sui gradini della scala di cemento, dopo una serie di interventi, imbracciò una chitarra e iniziò a cantare l’Avvelenata di Guccini. L’unico ricordo lucido di quella giornata tumultuosa.
Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa
Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia
Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi
Vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso
Quella canzone mi sembrava esprimesse la rabbia di una generazione. La mia rabbia. Ritornai a casa, presi il catalogo della «Nannucci» e ordinai a Bologna Via Paolo Fabbri 43 e il libricino con gli accordi per chitarra di Francesco Guccini. Non mi andava di suonare Monya di Peter Holm, l’unica canzone che sapevo eseguire, compresa insieme alle prime lezioni pratico-teoriche, nel pacchetto d’acquisto della chitarra. La Mi7 e Re. Facile. E neanche la Canzone del sole di Lucio Battisti che celebrava “le lunghe trecce, gli occhi azzurri e poi”. La Mi Re Mi.
No, i tempi erano velenosi, per cui l’Avvelenata con la sua franchezza, le sue parolacce, il suo anticonformismo divenne una sorta di marsigliese generazionale. Mai più canzonette. Gli anni plumbei. Scaduta l’età dell’innocenza in via Mario Fani.
Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a cantare
Godo molto di più nell’ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare
Se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie
Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenermi vivo
Lunghe esercitazioni. Dovetti imparare a stirare la mia mano tozza, per schiacciare il barré sulle sei corde e allenarmi con i diesis. Un piccolo supplizio per chi era totalmente negato. Un insulto alle musicali Muse, nessuna esclusa: Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Urania, Polinnia, Calliope.
Meschine e stravolte.
Mi, Si, Do#m
, Sol#m, La, Si, Mi, Si.
La cosa buffa è che pian pianino, della serie il sudore batte il talento, approfittando anche della scarsa estensione vocale di Guccini, non solo ho imparato ad eseguire con grossolana scioltezza il giro armonico, ma anche, udite udite!, a cantare L’avvelenata, con il dovuto tono greve e salmodiato.
Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista
Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista
Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino
Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare
Oltre all’Avvelenata, nel vinile da 33 giri,scoprii Piccola storia ignobile, Canzone quasi d’amore, Canzone di notte n. 2, Via Paolo Fabbri 43, e Il pensionato.
Da sempre, e non solo perché liceale, amavo le parole, le storie, i racconti. E Guccini era formidabile. Essenziale ed elegante, Raffinato ed esatto. Ruvido e poetico. Ho sempre pensato che i suoi testi fossero originalissimi e profondissimi, perfetti. Perfetto anche il rapporto con una musica mai invadente. Sempre in posizione ancillare, di servizio.
In un periodo in cui l’orecchiabilità e la cantabilità erano i valori perseguiti dai discografici, negli anni Settanta, un Guccini si imponeva per l’esatto contrario di ciò che il mercato chiedeva. I suoi brani erano poetici, intensi e delicati, incorniciati da un arpeggio discreto, un po’ folk, senza virtuosismi, scarabocchi, assoli o svisate. Potevano essere cantati in osteria o nelle assemblee, durante un campeggio al mare o su una panchina di paese. Canzoni per chi voleva cambiare il mondo, ma senza urlare, senza far rumore.
Lui, il vero Cantautore, dalla erre moscia.
Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?
Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no di un qualche metro
Compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco
Da liceale, dicevo. Ma poi? Poi non è cambiato nulla. Guccini è diventato un compagno di vita. E nella sua discografia sono dolcemente naufragato. Ancora adesso alcuni brani mi commuovono, nonostante i lustri passati.
Tanti i capolavori. Da brividi. La mia playlist.
In morte di S. F. (Canzone per un’amica), Noi non ci saremo, Auschwitz (la canzone del bambini nel vento), Dio è morto, Un altro giorno è andato, Primavera di Praga, La Locomotiva, Piccola città, Il vecchio e il bambino, Eskimo, Autogrill, e ancora Bologna, Venezia, Bisanzio, Black-Out, Milano (poveri bimbi di), Scirocco, Signora Bovary, Culodritto, Keaton, Quello che non, Canzone delle domande consuete, Vorrei, Cirano, Don Chisciotte,
Uno su tutti: Lager
Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni
Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete
Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate
Per questo gran sfogo di Guccini, una vera e proprio incazzatura, non mi stancherò mai (e non credo di essere il solo) di ringraziare il critico musicale Riccardo Bertoncelli, che lo accusò di essere un manipolatore di ingenui fanciulli e di essersi venduto alle case discografiche. Inoltre stroncava su «Gong» il suo ultimo album, Stanze di vita quotidiana (1974): “Guccini se ne esce fuori con un disco all’anno, ma si vede che ormai non ha più niente da dire”.
La replica fu appunto l’Avvelenata, una canzone che il Guccio iniziò a cantare nei concerti. Sebbene non inciso il brano iniziò ad avere un successo tale da arrivare all’orecchio del critico, che decise di incontrare Guccini. I due si chiarirono. E quando l’avvelenato propose di togliere il suo nome dalla canzone, Bertoncelli rifiutò. Il brano venne inserito in Via Paolo Fabbri 43, uno degli album più belli di sempre, secondo «Rolling Stone Italia». Dal nome della strada (Paolo Fabbri era un partigiano e antifascista) dove Guccini aveva vissuto a Bologna, prima di ritirarsi a Pàvana nel 2012.
Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso
Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto
Ho visto in questi giorni Note di viaggio, il film-viaggio dedicato al dietro le quinte del progetto discografico, dall’omonimo titolo, che ha coinvolto decine di interpreti per un omaggio al Maestro, sotto l’egida di Mauro Pagani. Altri 10 cc di fiele per endovena.
Probabilmente comprerò un bottiglia di Aglianico (L’Atto delle «Cantine del Notaio») e delle buone salsicce lucane con tanto peperone rosso piccante. Forse prenderò il vinile di Paolo Fabbri 43, cavalcherò l’Appennino e andrò a Pàvana, in un giorno rugiadoso d’autunno, per bussare alla sua porta.
Forse è l’unico antidoto al veleno del rammarico.