Nel 2005 frequentavo l’ultima classe del liceo scientifico Galileo Galilei di Potenza. I miei compagni ricorderanno bene cosa abbia significato per quelli di noi che furono sorteggiati, essere spediti nella sede distaccata, al Seminario Maggiore. All’inizio non c’erano neanche le lavagne. I banchi che trovammo in classe erano quelli con il buco per il calamaio. I miei insegnanti non avevano nient’altro che la voce per fare lezione.
Direte: “ma che cosa c’entra con la Turchia? Torna a parlare di Istanbul”. Tuttavia ricorderete che il mio è “uno sguardo lucano in Turchia” e in quanto tale non può esimersi dal fare in qualche modo avanti e indietro. Sono rientrata da poco ad Istanbul, la settimana prossima riapriranno le scuole, in presenza, speriamo. A parlarne a Potenza uno che conosco ha detto: “così gli insegnanti torneranno a far finta di lavorare”, uno lo ha detto mille lo pensano. Davvero deprimente per un paese democratico, che si fa portavoce di valori come libertà, diritti umani eccetera e nel quale il senso comune è quello di credere che i maestri rubino lo stipendio allo Stato e che la gente impari da sé. Se questo è il risultato del nostro tanto stimato pensiero critico allora dell’eredità del passato non abbiamo fatto granché buon uso. Mi stupisce ancora di più constatare, in voli pindarici che la calura esaspera, come la realtà sia piena di controsensi e oggi ve ne racconto uno. Prima di tutto a differenza dei presunti maestri ruba stipendio (ahinoi!) dell’Italia, in Turchia, l’educazione è davvero ancora una cosa che dipende dai maestri e questo fatto è socialmente riconosciuto. Essere un maestro ha un valore, la gente ti fa l’inchino e anzi se portasse un cappello lo alzerebbe in segno di saluto. In questo paese essere Hoca (si legge ogia), maestro, è una cosa pres-ti-gio-sa.
E allora io ripenso ai miei, di maestri. Quando ci hanno mandati via dal Galilei ci hanno tolto i laboratori, le macchinette delle merendine, le finestre aperte sulle case della gente con cui distrarsi, le pareti dei bagni da vandalizzare, il bar dove aspettare la seconda campanella, la palestra. Quando ci hanno tolto tutte queste cose, sono rimasti solo gli insegnanti a dire che sì, questa è una scuola. Non avevamo neanche più un nome, eravamo gli studenti della post – scissione. Quelli del liceo numero due. L’aula magna, però, era grandiosa: un anfiteatro in piena regola per riunirsi a fare chiacchiere sui film di attualità (abbasso i tiranni, viva la libertà!) mentre il dispotismo serpeggiava libero due piani sopra le nostre teste dove il nostro preside di allora riceveva colonnelli dell’esercito ai quali, a metà gennaio del 2005, diede di buon grado il benvenuto perché ci facessero propaganda, “avete pensato a cosa fare l’anno prossimo? Perché non venite a fare i soldati?”. La carriera militare era un buon compromesso: sistemarsi con un buono stipendio, sentirsi adulti fatti e finiti a ventun anni (ma non è presto?), portare il pane a casa, aiutare i genitori, togliersi dalla strada (eravamo per strada?).
Ecco, adesso ci ripenso.
E scandisco bene nella mia mente le parti di questo discorso.
In un liceo. I militari. A fare propaganda.
Ma il liceo non è (da sempre!) l’avamposto dell’università? Non è quel posto che più di tutti significa: domani voglio essere un medico, un accademico, un ingegnere, un giuridico, un insegnate, un giornalista? Sì? E allora quel giorno perché non c’è stata la rivoluzione? Perché non sono volate le sedie? Perché nessuno ha detto: è un oltraggio! È anti-democratico! Perché non sono venuti la televisione, la radio e i freelance? Perché davanti alle porte del nostro liceo, invece c’era il deserto dei Tartari?
Alcuni insegnanti dissentivano e vollero parlarne in classe. Dicevano: “i militari che fanno reclutamento in un liceo! Ma non percepite qualcosa di stonato?” e alcuni di noi rispondevano: “sì, sì, infatti!” ma poi nei bagni, in capannelli, la gente si dava di gomito dicendosi “ma chi se ne frega, grazie al colonnello abbiamo saltato due ore di latino”.
Per questo oggi, a trentacinque anni, quando ascolto ancora commenti sugli studenti e gli insegnanti dell’università Boğaziçi di Istanbul, una delle più famose nel mondo, che hanno protestato beccandosi gli idranti e i fumogeni in faccia solo perché trovavano inaccettabile che il nuovo Rettore non fosse stato eletto bensì imposto dall’alto, io mi chiedo: quando ieri questi ragazzi frequentavano i licei che tipi erano?
Tra colleghi (italiani) qui a Istanbul spesso ci diciamo che nelle scuole turche non viene coltivato il pensiero critico, che si impara tutto a memoria, a cantilena. Ma è vero? Ne siamo sicuri?
Forse il paragone tra noi (italiani) e loro (turchi) in merito alla libertà di espressione e di pensiero (c’è? Non c’è? Cosa significano queste parole?) deve partire da uno sguardo alle chiacchiere nei bagni delle scuole italiane, dai: “chi se ne frega, abbiamo saltato due ore di latino oggi”. Sono solo parole o i mattoni più solidi sui quali abbiamo costruito il qualunquismo, pilastro solidissimo della nostra italianità, dal quale pensiamo di esprimerci liberi? E se siamo davvero liberi, come lo esercitiamo questo diritto? E i nostri maestri, mosche bianche in una società che crede che la scuola sia fatta di gente che mangia sulle spalle dei contribuenti, contro quali e quanti pregiudizi devono lottare ogni giorno? E alla fine: siamo proprio sicuri che l’Est non abbia niente da insegnare all’Ovest e che noi europei siamo quelli “arrivati”, i veri detentori dell’eredità del passato?