
Potenza, ore 24:00 – Giampiero D’Ecclesiis
Domani inizia la Fase 2, la morsa del contagio che ci ha chiuso in casa negli ultimi due mesi si allenta leggermente. Non cambia molto ma, almeno per ora, avremo qualche possibilità in più di forzare “la reclusione”.
Sono stati giorni difficili, l’ansia è andata crescendo con le brutte notizie, ci ha colpito la perdita di persone care, di facce note.
Le nostre Cronache di una Pandemia hanno raccontato gli stati d’animo, le ansie, gli interrogativi di ciascuno di noi, chiusi in casa e chiusi su noi stessi.
E’ stata un’esperienza unica, per molti versi interessante, abbiamo costruito un piccolo bus virtuale e abbiamo viaggiato assieme a tutti coloro che hanno contribuito alle Cronache tra gli stati d’animo, abbiamo scrutato da dietro i vetri le nostre città deserte, vuote, silenziose. .
Ora è arrivato il momento di iniziare a volgere lo sguardo verso l’esterno, inizia una ricostruzione che sarà psicologica, sociale, economica, sanitaria, proveremo a raccontare anche questo.
Non resta molto altro da dire se non un grazie a coloro che ci hanno seguito e un grazie di cuore a tutti coloro che dalla Lombardia, dalla Toscana, dal Piemonte, da tanta parte d’Italia e da tanti paesi della nostra Basilicata hanno collaborato al nostro diario, vi diamo appuntamento a domani, per l’ultima speciale Cronaca di una Pandemia e poi inizieremo a raccontare la fase 2 con una nuova rubrica.
Voglio chiudere la mia ultima Cronaca con un pensiero al mio amico Astronik che crudelmente, senza preavviso, questo virus si è portato via: Amico mio mi manchi, lasci un vuoto grande, più grande di quanto mai avrei potuto immaginare.
Potenza, ore 24:00 – Pino Paciello
Caro diario, era nell’aria da giorni ma oggi qualcuno ha deciso che dobbiamo sopprimerti. Scomodando Edipo (o Freud) il Capo, in video, ci ha spiegato che “uccidere il diario” è la metafora migliore per spiegare quanto sia importante a un certo punto della vita che si dia corso a un’evoluzione delle cose.
Sembrava dispiaciuto, ha ringraziato tutti quelli che hanno partecipato al racconto collettivo della Pandemia (ha usato davvero il termine collettivo, lo stesso, forse, che sentiva ai suoi tempi durante le assemblee) ma con fredda lucidità ci ha spiegato che domani si entra nella fase due e una volta recuperata una maggiore agibilità sociale non aveva più senso un diario intimo che continuasse a narrare la vita solo secondo le sensazioni percepite dentro le proprie quattro mura.
Né si è lasciato persuadere quando il più sensibile dei presenti ha provato a fargli notare che il diario nel frattempo aveva comportato un aumento esponenziale (fino al 600%) delle visualizzazioni della pagina di Totem. Anzi, in riferimento a ciò, ha ribadito cinicamente che quando si è all’apice di un risultato è proprio quello il momento di far partire una nuova curva.
Cosa avrà voluto dire? Secondo me intendeva che da qui a poco lancerà un nuovo format che non disperda il miglior patrimonio di scrittura partecipata vista negli ultimi tempi da queste parti. Pertanto, ho la sensazione, caro diario, che pur cambiando il nome avrai ancora vita lunga.
Faenza ore 13:25 – Domenico Marchione
Ho amiche, ho amici, che sanno piangere.
Lasciano cadere calde lacrime e, accarezzandosi il viso, le spalmano lentamente sulle guance.
Sanno dare forma ai loro pensieri.
Non fanno sempre tesoro del loro passato.
Non strappano le pagine buie della loro esistenza, le custodiscono, le mostrano fiere.
Ogni cicatrice, che segna il loro cuore, è un sogno infranto.
Ma ci riprovano ancora. Instancabili.
Danno amore, e se non ne ricevono, guardano altrove. Cercano luci nuove, a cui aggrapparsi, come robuste liane.
Ho voglia di cambiamento, lo sento arrivare.
Ha forma.
L’ho desiderato con forza.
Oggi piove e il vento soffia forte. Bagna i tetti, i muri, i vetri. Io dentro casa sono in attesa del sole.
In attesa di ritornare a vivere.
Ora a farmi compagnia solo il canto triste del vento.
Ma è primavera.
È arrivata vita nuova.
Ogni nuova pianta, ogni fiore che è nato, ha porta bellezza e speranza.
Allora è giusto ritornare a sognare, a coltivare un animo nuovo.
Potenza, ore 18:00 – Antonio Di Stefano
Cinquantacinquesimo giorno. Quasi due mesi. Siamo stati fermi nelle nostre case come nell’occhio del ciclone mentre fuori il mondo veniva frullato. Chiusi nel perpetuarsi di giornate domestiche, sia quelli che lavoravano davanti a un pc per 12 ore di seguito che quelli che guardavano fuori alla finestra.
Ci siamo scoperti migliori di quel che pensavamo e abbiamo avuto nostalgia di quando cialtroneggiavamo nelle condizioni di normalità.
Abbiamo tenuto la contabilità del contagio, ci siamo preoccupati per la progressione dei positivi al virus, abbiamo guardato quotidianamente al numero dei decessi e compulsato statistiche di mortalità degli altri Paesi, mesti necrofori digitali.
Qualche numero voglio darlo anche io: quasi 30.000 morti da covid in Italia, finora, un’enormità. Ogni anno 8.000 morti per conseguenze influenza sempre in Italia (fonte Istituto Superiore della Sanità). Ogni anno 1.400.000 persone al mondo muoiono per disturbi diarroici (fonte Organizzazione Mondiale della Sanità). Quando finalmente la normalità irromperà nelle nostre vite la dimestichezza razionale che abbiamo dimostrato con il Sars-cov2 riusciremo a mantenerla anche nella valutazione delle altre patologie che non ci assediano?
Ma intanto con oggi si chiude il lockdown e speriamo di poter mettere in archivio sia l’ennesimo anglicismo acquisito che questa condotta di vita ritirata. Domani si riparte, in modalità scomposta: finalmente al lavoro, mannaggia si torna al lavoro, maledizione ancora senza lavoro.
Ripartenza diseguale.
Villa d’Agri, ore 17:00 – Nuario Fortunato
SOL LUCET OMNIBUS
Spesso mi capita di vivere la sensazione del parto in dormiveglia. Non la ricostruzione di quei momenti, il riavvolgimento della pellicola della mia vita o la scenografia di quel corto d’autore che è l’esistenza di ognuno di noi. E’ proprio come se venissi nuovamente al mondo. In tutta la mia missione più pura e ultima: vivere. Sono nato in una fredda mattina d’inverno. Era dicembre, a terra c’era tanta neve. Non era il mio momento in realtà, ma un improvvido tentativo di restauro di un contenitore in plastica provocò a mio padre una ferita da taglio alla mano. Il sangue che fluttuava a rivoli, quei piccoli momenti di concitazione che accompagnano gli eventi inaspettati e condizionanti. Probabilmente la visione del sangue dovette leggermente scardinare la proverbiale calma olimpica e serafica che da sempre contraddistingue mia mamma. Sta di fatto che iniziai a fare le bizze dall’interno del suo grembo, con più di un mese di anticipo. A volte la vita è beffarda, cerca soltanto elementi di disturbo al corso degli eventi. Sono convinto che il fato sia un copione scritto e che, a volte, possiamo condizionarne la velocità o spingere semplicemente sull’acceleratore della sorte.
Il serbatoio dell’auto di mio padre ovviamente era miseramente quasi a secco (ho ereditato da lui questa concezione un po’ naif delle cose pratiche del vivere quotidiano), nel mentre io facevo pressioni sul mondo intero. Avevo fretta. Probabilmente non avevo alcuna intenzione di nascere nel gennaio del ’79. Sentivo che era il mio momento e che il dicembre del 1978 era il segnalibro iniziale della mia storia. Il 1978 era l’anno giusto, cavolo. L’anno dell’elezione di Pertini; l’anno di incisione di ‘Volta la carta’ e de ‘L’anno che verrà’; l’anno di pubblicazione di ‘Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino’; dei Mondiali di calcio tra i più avvincenti e contraddittori della storia, tra l’incanto regalato dagli Orange, le magie di Kempes e l’esultanza albiceleste sporcata dal regime sanguinario e repressivo di Videla.
Insomma, avevo preso la rincorsa ed ero pronto a tuffarmi in una nuova dimensione. C’era un solo problema. Le condizioni atmosferiche e logistiche non consentivano a mio padre e a mia madre di raggiungere il vicino ospedale di Villa d’Agri. Fu così, allora, che, grazie all’aiuto del medico di famiglia e dell’ostetrica il mio avvento acquistò i contorni di un miracolo domestico. Venni alla luce, circondato dal calore umano di una famiglia intera. Piccolo, prematuro, ma già curioso e spiritoso, mi si racconta. Nonostante il mio fisico gracile, macilento, emaciato e smunto, la mia crescita fu accompagnata da un sadico senso del rischio e dell’avventura.
Credo di essere caduto 100 volte e di essermi rialzato altrettante volte, di essere nato e rinato 10, 100, 1000 volte. A un certo punto, i miei incidenti le mie avventurose gesta divennero addirittura materia di narrazione fiabesca che le mie sorelle chiedevano a nostra madre per concedersi senza opposizione a Morfeo. Ma questa è un’altra storia.
Parma 10.51 Cristina Cogoi
Mentre è iniziato il conto alla rovescia
Mentre attendo di uscire domani e ricominciare a lavorare pur non sapendo ancora bene dove, visto che non posso uscire dalla regione in cui vivo e ho un mandato extra regionale
Mentre cerco di capire come sarà tornare ad una finta normalità
Mentre penso a cosa farò come prima cosa da libera
Penso a questo tempo passato a casa dove tutto ciò che sembrava insormontabile è passato come ogni cosa che passa.
Penso a quante cose ho fatto e quante ho rimandato pensando che tanto c’era tempo
Penso a come sono cambiata dentro e fuori
Penso a come è cambiato il mio valore del tempo e del silenzio
Penso a certe persone che ho lasciato andare perché non mi appartenevano più e ad altre che ho lasciato avvicinare perché vibravano della mia stessa energia
Penso a quanti a modo loro mi hanno tenuto compagnia con una telefonata un sorriso un aperitivo su Skype o su zoom
A quanti hanno illuminato i miei spazi solitari
A quanto sono stata fortunata a quanto lo sono ogni giorno, grata di tanta attenzione nei miei riguardi a prescindere
E cosi capisco che l’uomo è contaminato da maree di virus ben più pericolosi del Covid cosi annidati da non permettere nessuna cura nessun vaccino.
La paura per ciò che non si conosce per ciò che ci fanno sentire o sembrare sbagliato
La rabbia , l’egoismo e l’invidia accumulata
L’attaccamento alle cose, a discapito dei valori, ai soldi, quando tanto tutto è di passaggio e si può perdere in un soffio
E capisco come sono oltre
Oltre a tutto questo sentire
Forse per questo non ho mai avuto paura in tutto questo tempo quasi mi sentissi immune
Lavorare su di me in questi anni è stato così potente, così essenziale
Quando ho imparato a silenziare la mia mente e ad ascoltare la mia anima è stato magia, è stato pace, è stato finalmente benessere
Domani esco, ma ieri la mia natura ribelle ha preso il sopravvento e ho trasgredito alle regole, dopo due mesi di totale rigore ad un soffio dalla legalità ho sfidato la sorte e sono scappata in campagna nella natura a camminare e ho capito che i limiti sono solo nella nostra mente nei nostri cuori nei nostri schemi
Siamo così, prigionieri di noi stessi
Siamo così, contaminati nell’anima
Siamo così, attimi di vita sospesi
fragili vulnerabili in balia dei venti
Venti che incuranti di Noi e della nostra breve vita soffieranno a prescindere per l’eternità
Genzano di Lucania, ore 9:35 – Gianrocco Guerriero
Oggi è davvero domenica, dopo tanto tempo, perché domani sarà veramente lunedì (un quasi-lunedì, essendo il primo dopo un lungo periodo di “convalescenza sociale”). I significati nascono sempre da un confronto e si fanno da sfondo l’un l’altro, compresi quelli contenuti nei giorni della settimana. Durante questo lockdown, ovattato dall’interazione personale diretta, ho giocato a decifrare i significati dal modo di scrivere e di interagire sui social e mi sono reso conto che essi non sono mai espliciti: in percentuale altissima vanno ricostruiti “fra le righe”. Penso non ci sia troppo da meravigliarsi, di questa cosa: le identità non sono che costruzioni mentali (si finge soprattutto con se stessi) e qualcosa di oggettivo può venir fuori solo dalla relazione. A frantumare gli “Io” più artefatti sono soprattutto le contraddizioni. Mi limito a un esempio assai comune che ognuno può verificare: supponiamo che tal dei tali scriva che insultare l’avversario è segno di pochezza argomentativivava e di frustrazione personale: cosa pensare quando poi si scopra che quella stessa persona ha insultato in passato a sua volta e che, magari, poco dopo aver scritto il “sermone” ha apposto un accalorato like sotto un post in cui ad essere dileggiati sono i suoi “avversari”? Penso che non sia neanche necessario rispondere.
Poi c’è WhatsApp. Ho imparato tanto anche da lì: a riconoscere le varie sfumature di antìfrasi necessarie a veicolare messaggi indiretti e il ruolo che in ciò (e in altre tecniche di comunicazione) hanno gli emoticon; a elaborare le tensioni nascoste nei giochi linguistici e a sentire emotivamente il mio interlocutore in base agli argomenti che immette nella comunicazione e a quelli che evita; infine, a intuire il significato di quel potente metalinguaggio che è lo scambio di banalità e ad avvertire il peso della sterilità che gli è propria.
Torno fra la gente con più consapevolezza. Parafrasando Pauli potrei dire che ciò che crediamo di essere, in fondo “non è neanche sbagliato” (per dire che è del tutto irrilevante), con Peirce che “l’identità di un individuo coincide nella coerenza fra ciò che fa e ciò che pensa” e con Wittgenstein che “il mondo è semplicemente ciò che accade”.
Potenza, ore 10:20 – Claudio Elliott
La vita facile del virus dal 4 maggio
Le azioni quotidiane hanno avuti il loro peso, in questo periodo più che in altri. Come se fossero dei riti che non si possono rimandare: si inizia dalla mattina, naturalmente, per arrivare alla sera e sono queste azioni ad accompagnarci. Nel nostro caso (nostro nel senso di casa mia) c’è da pensare a far mangiare i due cani femmina (Thai e Billie), poi spargere il becchime per gli uccellini, passeggiare nel giardino parlando con le piante e gli alberi, cucinare (a volte lo fa mia moglie, a volte io), poi uscire con Thai e incontrare i tre della pattuglia.
Li vedo preoccupati, anzi più che vederli – bardati come sono – lo intuisco. Il consueto saluto è meno cordiale: è come se se ci fosse una sorta di rassegnazione nei loro occhi. La percepisce anche Thai, che scodinzola meno del solito.
– Con domani finisce – dice Andrea. – Forse il nostro lavoro è stato inutile.
– Madonna, come sei pessimista – dice Giovanni.
– Ha ragione lei – dice Gianfranco, indicando la collega. – Migliaia di poliziotti, di soldati, di carabinieri hanno pattugliato la penisola …
Andrea lo interrompe: – E migliaia di medici e infermieri e personale ospedaliero ha lavorato anche venti ore al giorno, rimettendoci spesso la vita, ma da domani si torna alla cosiddetta normalità. La storia non ha insegnato niente.
Gianfranco aggiunge; – Infatti. Ho letto che nel 1918 ci fu un allentamento delle restrizioni quando pareva che il virus, la spagnola, non fosse più così diffuso, anzi che fosse stato sconfitto: da quel momento in poi si sono contati milioni di morti in tutta Europa.
– Il coronavirus da domani avrà vita facile, insomma – dico.
– Sì. E il nostro lavoro e quello di tutti coloro che hanno combattuto contro questo mostro invisibile sarà stato vano.
Giovanni non è così pessimista e lo afferma apertamente: – Ma dai, la gente starà attenta. E comunque si devono riaprire le attività, si deve tornare a produrre, a far circolare i soldi.
– Per pagare i funerali – dice Andrea.
– Il governo – inizia a dire Gianfranco.
– Ma mica è colpa del governo se si è sviluppata questa pandemia – dice Giovanni.
– Non dico questo. Ma non si deve fermare tutto un paese.
– Come avresti fatto tu? – chiede Andrea, che sembra infervorarsi. – È facile polemizzare se non si è al comando, anzi, aggiungo, le polemiche vengono proprio per questa esclusione dalla stanza dei bottoni.
– Sentite – dico, per stemperare l’atmosfera che si sta facendo pesante – a Thai è andata bene comunque. Le sue abitudini quotidiane non sono cambiate e credo che non si preoccupi del domani.
– L’importante è che mi abbia ritrovato il cellulare, ieri – dice Gianfranco, carezzandole la testa. – Però. Vabbè, non fa niente.
– Cosa? – chiedo. Andrea e Giovanni lo guardano incuriositi.
– Ieri mi ha chiamato una signora.
– Ti ha chiamato dal balcone? – chiede Andrea. – E le hai risposto, scommetto. Se lo sa tua moglie, ti strozza.
– No. Mi ha chiamato qui, sul cellulare. Dice che ha ricevuto una chiamata da questo numero e voleva sapere chi fossi. Le ho detto che per sbaglio avrò fatto il suo numero, non so come.
In quell’istante stesso Andrea indica Thai e quello che sta facendo: mordicchia con frenesia un pezzetto di legno. Gianfranco si illumina: – Se ha fatto lo stesso con il mio cellulare …
Thai si ferma, lo fissa un attimo, poi riprende il suo lavoro.
Genzano di Lucania – ore 13,00 – Rocco Di Bono
E’ appena uscito, per Telemaco Edizioni, un saggio molto interessante dell’amico Nino Di Bari, dal titolo “Io, Lutero“, in cui l’autore (un diacono) riflette su quelle che definisce “le contraddizioni e le ipocrisie della Chiesa”. Una riflessione che ruota attorno a una domanda: cos’è la Libertà? Una domanda quanto mai attuale, soprattutto alla luce degli avvenimenti di questi ultimi mesi. La mia libertà, rispetto al pericolo del contagio, quando e quanto può essere limitata? E la libertà di chi vive con me o attorno a me? E la libertà di chi lavora fino a che punto può essere ridotta senza mettere a repentaglio un intero sistema economico o quello di una singola famiglia? Su queste e su tante altre domande abbiamo tutti provato a riflettere e a orientarci. Le stesse domande se le poneva Martin Lutero nel 1527, quando la peste era riapparsa a Wittenberg, la città dove Lutero risiedeva, e nelle città vicine. Nella sua lettera “Se è lecito fuggire da una pestilenza mortale”, il monaco riformatore si interroga su quali debbano essere le responsabilità dei cittadini durante il contagio, e lo fa mettendo in competizione tra loro due concetti: onorare la santità della propria vita e onorare la santità di coloro che sono nel bisogno. «Tutti noi», afferma Lutero, «abbiamo la responsabilità di allontanare questo veleno al meglio delle nostre abilità perché Dio ci ha comandato di prenderci cura del corpo». Difendere le misure di salute pubblica come quarantena e distanziamento sociale e attenersi a quello che ci suggerisce la scienza medica significa, quindi, agire in maniera libera e responsabile. Cinquecento anni dopo, nel clima di paura che circonda la diffusione dell’epidemia, perché non tornare a riflettere sulle parole di Lutero?
Villa D’Agri, ore 23.29 – Antonella Marinelli
Nei miei racconti ci siete stati tutti.
Cinquantaquattresimo giorno rosso. Ultimo giorno rosso. Nei racconti che hanno costellato uno dei periodi più intensi della nostra vita ci siete stati tutti. Un diario quotidiano che è stata una sfida alla grande emergenza sanitaria che stiamo affrontando. Quasi terapeutico questo esercizio di scrittura giornaliera. La condivisione degli stati d’animo, delle passioni, delle tracce degli altri cronisti mi ha riscaldato il cuore. Mi sono sentita meno sola.
E ad un certo punto ho capito che per resistere dovevo uscire dal mio mondo e guardare l’alterità. Vi ho percorsi in lungo e in largo, mi sono abbeverata delle vostre paure, delle vostre inquietudini, che poi erano le mie. E nel vuoto fermo dei nostri quartieri ho visto per la prima volta il tempo dilatarsi. Tutto cadenzato. Passi sparuti e lenti, volti bardati e marziani, auto lente e dimesse. Quella del distanziamento sociale è stata la prova più dura dal secolo breve a oggi. Il distanziamento sociale che è stata la morte del nostro essere cittadini, ha salvato il nostro resistere alla vita.
Tante sono le istantanee di questi cinquantaquattro giorni, ma su tutte una. L’ultimo giorno di marzo in cui bardata di sciarpa e guanti mi sono recata nel mio negozio di fiducia, tra timore e ansia di fare presto, ho dovuto attendere che un po’ di persone uscissero dall’esercizio. Davanti a me una coppia di anziani, molto avanti con gli anni. Lui con un borsalino vissuto, incurvato nella sua magrezza, sosteneva il braccio della sua piccola donna col cappotto di lana cotta verde muschio e i capelli grigio metallico. Non so che volto avessero, li avevo di spalle davanti a me. Erano i giorni in cui l’Italia stava morendo con chi l’aveva fatta, i nostri nonni. Ma loro, questi due rami secolari coperti di muschio, si mostravano indifferenti agli accadimenti, rispettosi e ordinati, teneri ed eterni. Avevano tutto ciò che in quel momento a me mancava, la fede e la speranza, che sarebbero parole tremende, come diceva Pasolini, senza l’amore. E quindi avevano, nei loro cinquant’anni di vita vissuta insieme, l’amore, la costruzione di un amore. In questi cinquantaquattro giorni più volte sono ritornata con la mente su quel fermo immagine. Immagine che ho destrutturato e ricomposto, che ho anelato e temuto, che ho rifuggito e poi amato. E questa sera sono qui, alla mia scrivania, con la malinconia sui polpastrelli, quegli anziani nel loro approdo e una pagina di diario da completare.
Matera, ore 11.30 – Doreen Hagemeister
“Tempo per un compleanno”
Oggi anche noi festeggiamo un compleanno in quarantena. Mio marito compie gli anni. Noi scherzavamo proprio su questa data, l’ultimo giorno della Fase 1.
A mezzanotte noi tre gli abbiamo fatto gli auguri, dopo che si era già addormentato. Successivamente, mia figlia ed io ci siamo organizzate per una torta a sorpresa. A tarda notte, tra risate e lavori da pasticciere provette, finalmente era pronta. Tutta la casa si è riempita di un profumino che faceva venire l’acquolina in bocca e ho dovuto arieggiare e risistemare tutto per non lasciare tracce. Poi abbiamo nascosto la torta.
“La gioia più grande è quella che non era attesa.” (Sofocle)
Lui non sospetta nulla e l’idea di stupirlo con una sorpresa “fatta in casa” ha creato un clima di allegria e complicità tra me e Livia, ma anche di grande soddisfazione. Riflettevamo sul nostro regalo. La torta sarà certamente squisita e siamo sicure che l’apprezzerà. Ma il dono più grande è il tempo e l’amore che c’abbiamo messo.
Studi recenti hanno dimostrato che il nostro cervello di fronte a un evento inaspettato o una sorpresa attiva la parte coinvolta e si illumina “come un albero di Natale”. Mi viene da ridere. Natale a maggio con un sole incredibilmente luminoso è un esempio completamente fuori tempo!
Torna sempre il concetto di tempo, tanto presente e tanto scombussolato durante questa lunga quarantena. Proprio a Natale, dopo un tour de force lavorativo, durato oltre un anno, grazie alle attività che mi hanno coinvolte per la nomina di Matera a Capitale europea della cultura, avevo deciso il mio proposito per il 2020: rallentare i miei ritmi per ritagliare più spazio e tempo per me e i miei ragazzi. Non avrei mai e poi mai pensato che una pandemia globale potesse “aiutarmi” in questo.
Mentre scrivo queste righe tutto è diventato buio. Sento tuoni minacciosi sopra la casa e ogni tanto un fulmine illumina la stanza. Mi sa che era meglio non scrivere del bel tempo e della contraddizione con le luci dell’albero di Natale! Ora c’è un vero e proprio acquazzone in corso! Nel giro di una mezz’oretta il tempo è completamente cambiato!
La prossima volta sarò più cauta a scrivere cose del genere onde evitare lo scatenarsi di tempeste per non essere paragonata a Madame du Pompadour con la sua esclamazione celebre
“Dopo di me il diluvio.”
Villa d’Agri, ore 14:08 – Rosaria Russo
Dopo aver dormito circa 10 ore è domenica. Odio la domenica, tutto troppo lento, tanti pensieri per fare in modo che il lunedì parta con il piede giusto. Tante aspettative, troppe, quando invece bisognerebbe solo rilassarsi un po’. Eppure, questa mattina mi sono svegliata con il “buongiorno” di una persona che oramai è presente da mesi, senza che io gli avessi scritto neppure la buonanotte prima che andassi a dormire, perché troppo stanca. Quel tentativo di scrivermi ancora, nonostante io non avessi letto nessuno dei precedenti messaggi, mi ha fatta riflettere ancora una volta: ma quanto possono essere belli i piccoli gesti? Ma quanto siamo fortunati a riceverli? E quanto siamo bravi noi a ripagare questi gesti di affetto nei loro confronti? Per me “l’umanità” è proprio questa: dare, ricevere, ringraziare. Senza pretese. Ricordiamo che il tutto non deve avvenire in modo forzato, ma, anzi, dovrebbe essere un “allenamento” alla spontaneità. Ah quanto è bella la spontaneità! Ciononostante, indossiamo continuamente maschere per oscurare le nostre anime. Proprio da questa situazione di emergenza, di pericolo e frustrazione per tutti bisognerebbe coltivare, nel nostro piccolo, un po’ più di spontaneità, naturalezza e trasparenza. Alla fine, se ci pensate, cosa c’è di più bello e appagante?
Potenza, ore 15:02 – Luca Rando
Sono passati due mesi dal 4 marzo, quando con un decreto presidenziale il governo annunciava, tra le misure valide sull’intero territorio nazionale, la sospensione delle attività didattiche in tutte le scuole. Seguivano i decreti dell’8 marzo (con misure differenti nelle diverse Regioni) e quello dell’11 che estendeva le misure restrittive a tutto il territorio nazionale. Il mio diario inizia dall’11 ma la mia quarantena inizia dal 4. Ecco. Sono passati due mesi e oggi abbiamo festeggiato. Mia moglie ha preparato una torta e abbiamo fatto una foto tutti insieme (come non ne facevamo da tempo, nemmeno per il mio compleanno a febbraio e quello di Giulio a marzo l’avevamo fatta…). Abbiamo festeggiato la fine della fase 1 e un nuovo inizio. O forse soltanto la gioia di ritrovarci insieme dopo due mesi di grida, timori, solitudini sotto lo stesso tetto, videolezioni…
Non so se da domani cambierà qualcosa, non credo. Forse cambierà solo la nostra percezione del mondo esterno nel lento avvicinamento ad una quotidianità di incontri senza maschera, nel passaggio tra un prima e un dopo. Nelle tante fasi 2 della nostra vita che abbiamo attraversato, dopo una fase 1 fatta di perdita, dolore, paura, speranza, c’è sempre un momento di attesa, di sospensione del respiro, di nuove possibilità che si aprono o che speriamo. Dopo le lacrime, dopo il limbo dell’incertezza, dopo l’accettazione c’è il momento del nuovo inizio, con tutta la voglia, l’incoscienza e la pazzia del nuovo che ci aspetta. Aprirsi a questo nuovo è forse il compito che ci aspetta
Potenza, ore 18 – Antonio Califano
È finita, non è finita, ma cosa? Allora: siamo ancora dentro una catastrofe epocale, stiamo cercando di venirne fuori, i morti sono ancora morti, li vogliamo chiamare deceduti perché fa meno effetto, ma sono troppi e i contagi in alcuni territori ancora eccessivi. Domani comincia una nuova sperimentazione, ci si affida al buon senso ed alcune regole e vedremo come va, non lo sa nessuno. Si avvia il motore economico, e su questo ho molti dubbi soprattutto su quali imprese siano essenziali e quali no, si riavviano le relazioni sociali e questo mi interessa molto di più, bisogna farlo, necessario, si vive delle relazioni che abbiamo. Sono uscito stamattina, mi sono attenuto alle regole “vigenti”, ho incrociato amici, ho incrociato anche il caporedattore sul “treruote” ma non mi ha visto, scambiato opinioni, raccontato fatti, non mi sento alla vigilia di niente, il percorso è ancora lungo ma sono per la prima volta moderatamente ottimista. Io credo che da domani dobbiamo provare a sperimentare una nuova normalità, poi vedremo. È l’ultima pagina del mio diario per Totem, mi mancherà, ma da domani incomincio a pensare al futuro solo così si supera il presente. Mi mancheranno il vagabondo delle stelle e Ismail e tutta la ciurma che mi ha commosso e divertito, ma ci troveremo ancora, anche con nuovi amici, con cui “innaffiare la speranza”. Mi ricongiungo con una parte dei miei affetti più cari e questo mi fa felice e mi rende già diverso, ci si accontenta per ora. Caute diceva il filosofo.
Potenza, ore 10:00, Annamaria
A breve la fase 2 anche se preferirei considerarmi in una fase di continuo adattamento tra speranza e concreti progressi, tra timore e quiete con la sola certezza che niente tornerà come prima e non perché accadrà di peggio, ma semplicemente perché saremo diversi, forgiati da ciò che avremo scelto di trattenere veramente.
Ho fatto tante cose: pianto dolori, pregato il giusto, abbellito ricordi, costruito pazienza, desiderato affetti, distrutto e rimpalcato sogni.
Ho imparato ad osservare lo stesso angolo di verde in giardino e trovarlo ogni volta diverso, ad assuefarmi a giornate monotone che si ripetono uguali come nei film in cui il protagonista rivive all’infinito lo stesso giorno. Eppure… dalla monotonia ho imparato che il tempo può, e deve, essere pensato e non solo riempito,che il vuoto aiuta a tralasciare, a comprendere e a volte non serve a nulla, se non a resettare rumori cervellotici.
Ho imparato che si può parlare con tutti dietro uno schermo ma che, la potenza di uno scambio vero non ha confini, come fosse possibile una migrazione di cellule da un corpo all’altro. Ho imparato che si può mangiare senza aver fame e pulire sul pulito, che posso avere costanza nel praticare pilates in casa ma leggere sul divano mi viene meglio.
Ho imparato che c’è sempre un motivo, se si è in compagnia o anche da soli, è incanto chiudere gli occhi e scorrere i volti di chi ami, che si può abbracciare con il pensiero, che non c’è carezza più sincera di chi ti immagina felice e che, nella mancanza, si percepiscono presenze vere e che, solo ora, nella distanza, riusciamo a sentirci tutti simili e più vicini.
Potenza, ore 10:00 – Claudia Schettini
Ultimo giorno della fase 1…da domani si riparte!
Ma dove si riparte? Per dove? E soprattutto come?
Da domani semplicemente ricomincia un’altra periodo di quarantena a cui semplicemente si è voluto attribuire il nomignolo “Fase 2” per renderla più appetibile alle persone. Che io poi non ho nemmeno capito che cosa succederà da domani, né lo voglio sapere sinceramente. Ah si, forse qualcosa l’ho capita, da domani scatta la possibilità di far visita a coniugi, conviventi, partner delle unioni civili, parenti fino al sesto grado, affini fino al quarto grado come i cugini del coniuge. E a persone “legate da uno stabile legame affettivo”, come i fidanzati ma non, precisano fonti di governo, gli amici.
Ecco, gli amici. Proprio di loro vi vorrei parlare.
Gli amici, l’invenzione più geniale che sia stata fatta dai tempi del Big Bang. Gli amici, quei grandissimi rompipalle senza i quali non potresti vivere. Gli amici, quelli che Giuseppi non ti permetterà ancora di vedere. Perché i congiunti, gli affetti stabili, il parente fino al sesto grado il Covid non te lo possono passare, gli amici si invece. Ci sarà qualche spiegazione epidemiologico-scientifica dietro che ancora non mi è chiara. O probabilmente con gli amici hai talmente tanta empatia che “dentro uno, dentro tutti”. Le mie interminabili giornate di questa interminabile quarantena sono state scandite da tante cose ma, soprattutto, dai miei amici, quelli veri si intende, quelli che sono un po’ i tuoi punti cardinali, il tuo ventricolo sinistro, quelli senza i quali non distingueresti il giorno dalla notte. Quelli che sono l’unica costante non solo della tua vita, ma anche delle tue giornate…anche e soprattutto a distanza, quando tutto è più difficile.
Ore 8: direttamente da Brescia arriva il messaggio del buongiorno, senza di cui la giornata non può iniziare. È il nostro rito da 8 anni a questa parte, ogni giorno, minuto in più, minuto in meno. E anche quando ci troviamo insieme in giro per il mondo, la mattina dalla stessa stanza dell’albergo ci mandiamo il messaggio. Non si perdono le buone abitudini.
A qualunque ora del giorno e della notte (è un po’ paranoica come me ma, del resto, chi si somiglia si piglia) si materializza la voce della mia migliore amica. Impegnata in prima linea in questa battaglia, da dietro il bancone della farmacia con guanti e mascherina mi chiama per ricordarmi che anche oggi “abbiamo l’ansia”. Eh si, noi siamo felici o tristi insieme. Se ha l’ansia lei la devo aver pure io, altrimenti non vale. Lei che tra mille ricette da scrivere, farmaci da dispensare, faccende burocratiche da sbrigare, trova sempre e comunque il tempo per chiederti se sei viva. Quando parli con lei a telefono sai che parli anche con la sua famiglia, di cui mi sento parte integrante e con il gatto Miu, perché la stronza della tua amica sta in vivavoce e chissenefrega se tu stai imprecando contro qualcosa o qualcuno, gli altri sentiranno sempre i tuo francesismi. Quando hai un problema, finisci per averne sempre la metà, l’altra parte se la prende lei. Così si risolve tutto, sempre in due.
A giorni alterni, dall’altro lato del telefono, c’è qualcuno con cui ricordarci a vicenda che “siamo bellissime”, come d’altronde facciamo da quindici anni a questa parte. Se non me lo dico da sola me lo ricorda lei, e viceversa, anche quando il “quanto sei bella” è oggettivamente un eufemismo. Ce lo siamo ripetute continuamente anche durante la nostra lunga convivenza da compagne di banco. E oltre a ricordarti che sei un fiore ogni tanto ti manda foto per ricordarti quanto eravamo felici (e ubriache) pochi mesi fa, forse per non farti perdere la speranza che Giuseppi, prima o poi, ci farà incontrare di nuovo. E ti ricorda pure quanto è bello strafocarsi una vaschetta di gelato, semmai al sole, come ai vecchi tempi.
Poi c’è la chiamata, puntuale come un orologio svizzero, del sabato alle 13:30, quando entrambe facciamo pausa studio perché, no, prima di quell’ora le sudate carte non si possono abbandonare. Lei cammina sul tapis roulant, io mi avventuro in mezzo alle campagne. La voce squillante che ti riporta con i piedi per terra, che ti mette allegria e ti tira su il morale anche quando non c’è proprio più niente da tirare su. Ti ricorda di non mettere mano ai fornelli perché rischi di far esplodere la casa, ti ricorda di prenderti cura di te perché se no esci più pazza di quanto non lo sia già. E poi il saluto, mi manchi, ti voglio bene, voglio uno spritz.
Poi c’è chi condivide con te tutte le paranoie di questo mondo, chi capisce i tuoi silenzi, chi non ha paura di mettersi a nudo, chi ti rivela le sue paure più intime senza timore di essere giudicata.
Ogni mattina, da Teramo, arriva il post motivazionale, il buongiorno della mia povera coinquilina, poi divenuta una sorella, poi una mental coach. La giornata viene travolta dalla sua dolcezza che riempie anche quei lunghi momenti di silenzio e attesa. Ma ormai mi conosce così bene che è abituata ai miei messaggi lasciati a metà, ai vocali mai ascoltati, alle chiamate senza risposta.
Poi c’è la compagna di banco dalle elementari al ginnasio che, sempre per la tua indole a non rispondere ai messaggi, chiede alla migliore amica farmacista di cui sopra che brutta fine tu abbia fatto. Si è abituata anche lei. E siamo abituate a sentirci due volte l’anno e vederci una finendo per volerci ancora più bene di prima.
Poi è la volta delle foto del 2015 che la tua coinquilina ti manda per ricordarti quanto era bella la fine della sessione estiva seguita dalle bevute in Piazza Istria; ti ricorda quanto era buono il maritozzo di Romoli mangiato alle tre di notte, le mostre al Quirinale, gli infiniti km di camminata per le strade di Roma.
Poi un giorno ti arrivano le parole di “Virginia Woolf” recitate da voci dolci e soavi da circa 4000 km di distanza.
Poi ti arrivano ricette da sperimentare.
Poi riscopri persone preziose.
Poi ne incontri di nuove.
E quanto sono fortunata.
Io tutte queste cose meravigliose le ho sempre avute, non ho dovuto attendere la quarantena per capire che il mio mondo me lo colorano queste persone.
Perché no, gli amici non ci sono solo nel momento del bisogno.
Gli amici ci sono sempre quando ci devono essere.
Sono lì, al momento giusto e nel posto giusto.
Parte il primo esperimento di video racconto di TOTEM Magazine, Giampiero D’Ecclesiis & Fabio Pappacena vi propongono “LA MANO DEL DIAVOLO” della serie “Le storie del Maresciallo Nunziogallo”, per voi le prime sei puntate, da ascoltare e vedere con calma, un intreccio misterioso si svolge tra le strade del centro storico di Potenza, tra Via Pretoria e la Chiesa di San Michele si muovono ombre inquietanti, si sentono rumori, voci. Presenze oscure? Intrighi di provincia?
Ci penserà il Maresciallo Nunziogallo a svelare gli intrighi.
Chi sono i personaggi che si agitano nella storia? Demoni? Fantasmi? Sogni? Che succede nelle case di campagna dei potenti? Notai, avvocati, politici.
Un giro di ragazze squillo?
Da stasera per voi, su TOTEM Magazine. SEGUITECI , IL MARESCIALLO VI SVELERÀ OGNI SEGRETO